Afghanistan

Il Paese delle montagne senza più futuro

La prima salita femminile del Noshaq, la più alta cima dell’Afghanistan, ha dovuto attendere fino al 10 agosto 2018 prima di vedersi concretizzata. Rare le spedizioni straniere che hanno interessato la montagna, a causa dei continui conflitti che nell’ultimo mezzo secolo hanno reso la nazione un luogo poco sicuro e attraente per il turismo internazionale. Così su quella vetta che supera i settemila metri sono saliti i pochi sportivi locali, tra cui alcune ragazze. Hanno imparato a gestire l’altissima quota e l’aria rarefatta, divenendo alpinisti a tutti gli effetti.
Hanifa Yousoufi in vetta al Noshaq. Foto @ Ascend Athletics via FB
La prima donna a raggiungerne la vetta è stata l’allora 24enne Hanifa Yousoufi, seguita nel 2020 dalla diciottenne Fatima Sultani che dopo aver superato questo traguardo ha puntato cuore e occhi verso l’alto, agli 8848 metri dell’Everest. “Il mio obiettivo principale è mostrare al mondo che le donne afghane sono forti e possono affrontare le stesse sfide degli uomini. Quando ho scoperto che le donne di altri Paesi vengono qui per scalare le vette più alte ho pensato: perché non possono farlo le donne afghane?… poi sono arrivati i talebani. Durante le loro salite echeggiavano nelle valli del nord gli spari e le urla di battaglia delle milizie armate che facevano razzie nei villaggi. Ma le ragazze erano determinate, così hanno continuato per la loro strada, nella speranza di poter iniziare un nuovo capitolo e dare avvio a una nuova storia. Nell’alpinismo, come in ogni altro settore della vita. L’aspirazione era una sola: far sentire la propria voce e veder riconosciuti i propri diritti.

“Le montagne dell’Hindu Kush, la zona del Panjshir, sono ambienti bellissimi. Già solo volare in aereo sopra quelle terre lascia un senso di stupore. Pensare a tutte le persone che ho conosciuto fa male al cuore”

“Sono preoccupato perché i talebani sono contrari al fatto che le ragazze pratichino sport” ha dichiarato il padre di Fatima in un’intervista del 2020. “Ma le ho detto che è libera di fare qualsiasi attività le piaccia, compreso l’alpinismo, e io continuerò a sostenerla per quanto mi sia possibile”. Poi sono tornati i talebani, già al potere tra il 1996 e il 2001. Il 15 agosto di quest’anno entrano a Kabul indisturbati, mentre l’ormai ex presidente Ashraf Ghani lascia il Paese con la famiglia. E la paura si è impossessata del popolo. Le donne, che nel corso degli ultimi trent’anni sono riuscite ad acquisire diritti, autonomia lavorativa e riconoscimenti, sono piombate nel terrore immaginando il futuro. L’aeroporto di Kabul è stato preso d’assalto dalla folla in fuga ma, a guardare bene le immagini, si vedono ben poche donne. Nel frattempo, i talebani 2.0 promettono apertura, libertà di stampa, inclusione e rispetto per i diritti delle donne, niente burka e sì all’istruzione… promesse che a giudicare dai primi accadimenti sembrano quanto più aleatorie.

La montagna come messaggio di pace

Il leader combattente Ahmad Massoud è a lui che si ispira chi sogna un Afghanistan libero. Il “Leone del Panjshir” che nato tra le montagne del Paese ha scelto di imbracciare il fucile per diventare guida carismatica di un popolo che ancora oggi lo rimpiange. Stratega militare, amante degli scacchi e della poesia, musulmano osservante ma lontano dal fondamentalismo. Con il suo attivismo ha contaminato il cuore dei giovani, quelli che hanno scelto di combattere, ma anche gli altri, quelli che hanno sognato e provato a cambiare il Paese senza armarsi. Il suo è l’esercito dei Mujaheddin, quelli che nei primi anni Duemila, tra le montagne dell’Hindu Kush, hanno provato ad abbandonare il fucile per prendere la piccozza. L’ambizione era semplice: formarsi, diventare guide e portatori, per riaprire lo Stato al turismo montano in un territorio ricco di valli e cime sopra i seimila metri. A sostenere questi corsi di formazione la Cooperazione italiana allo sviluppo del Ministero degli Esteri, l'Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente e Mountain Wilderness International. Tra i partecipanti anche diverse ragazze.
Nel 2009 Malang, Afiat Khan, Gurg Ali e Amruddin ci riescono. Sono i primi afgani a raggiungere la vetta del Noshakh. Sognano di cambiare le sorti del Paese contribuendo alla pace. Sperano, con la loro salita, di aver lanciato un messaggio che possa essere di stimolo alle genti. “La popolazione non merita quello che sta succedendo” commenta Filippo Tenti di Overland. “Le montagne dell’Hindu Kush, la zona del Panjshir, sono ambienti bellissimi. Già solo volare in aereo sopra quelle terre lascia un senso di stupore. Pensare a tutte le persone che ho conosciuto fa male al cuore”. Filippo negli scorsi giorni ha lavorato con altri italiani, tra cui l’imprenditore Roberto Baratelli, per salvare uomini e donne che rischiavano la vita con il nuovo corso talebano. “Siamo stati in contatto con queste persone, abbiamo cercato di offrirgli supporto logistico e morale guidandoli fino al gate”. Fondamentali i rapporti con il Ministero degli Esteri, che ha permesso l’inserimento di diversi gruppi nelle liste di persone a rischio. I primi a prendere il volo sono stati 29 rifugiati, 22 sono arrivati a Roma mentre gli altri 7 si trovano in Francia. Sono atleti, sciatori, ragazzi e ragazze che hanno sognato l’olimpiade. Due di loro, Sayed Alishah Farhang e Saijad Husaini, hanno rappresentato l’Afghanistan ai Giochi Olimpici invernali di Seoul 2018. La loro colpa più grande è quella di avere avuto contatti e rapporti con il mondo occidentale, per i talebani è come essere schierati dalla parte del nemico. Loro come molti altri ancora laggiù, nell’Afghanistan che sembra non avere più un futuro. “Dal musicista scappato al primo governo talebano, e poi ritornato per trovarsi oggi bloccato a Kabul, allo studente che voleva contribuire nella ricostruzione dell’Afghanistan, spiazzato davanti all’annullamento delle sue speranze. Tutti quelli che ho conosciuto, che hanno costruito qualcosa e che noi abbiamo illuso di poter costruire nel loro futuro. Spero che possa tornare presto la pace, anche se dubito”. Come ha più volte scritto Nico Pirro, inviato per il TG3, i talebani “hanno vinto la guerra ma non è detto vincano la pace”.

Montagne aride dove corre il fiume della resistenza

L’80 percento del territorio afghano è caratterizzato da monti e valli. Una montagna ben diversa da quella a cui siamo abituati, qui spesso l’acqua scarseggia. Rare nevicate e precipitazioni del 70 percento sotto al normale arrivano a creare problemi alla popolazione rurale, spesso colpita da siccità così gravi da obbligare gli abitanti delle aree marginali a migrare in massa affollando i grossi centri urbani e generando nuova povertà. Una situazione che si sarebbe potuta risolvere con i progetti di sviluppo finanziati dopo l’intervento americano del 2001 grazie all’Afghanistan Reconstruction Trust Fund. “Questo sovvenzionava una serie di iniziative in svariati ambiti, tra cui quello ambientale” ci spiega una fonte che per diversi anni ha lavorato al miglioramento delle condizioni di vita presenti e future in Afghanistan. “La priorità era ricostruire il Paese distrutto dalla guerra portando energia elettrica, lavorando su istruzione e servizi essenziali, creando canali irrigui e molto altro”. Secondo i dati ogni circa dieci anni una grave siccità colpisce il Paese, per questo si è creata la necessità di trovare un efficiente sistema con cui rilasciare fondi ai contadini colpiti dal fenomeno. “Nel 2018 la risposta del governo non è stata rapida, arrivando a generare circa 300mila sfollati che si sono riversati nei centri urbani”.
Oltre a questo progetto legato alla mancanza di acqua, le aree rurali del Paese hanno visto arrivare la corrente elettrica, prima presente solo nei grossi centri e non in modo continuativo, hanno visto migliorare le loro condizioni di salute e accrescere le possibilità di vita. Ora cosa potrebbe succedere? “Le infrastrutture rimangono, perché non c’è stato un vero conflitto armato che ha distrutto quanto costruito” spiega. “Quello che potrebbe accadere in futuro dipenderà da molti fattori. Primo tra tutti dalle decisioni della politica internazionale: vorrà riconoscere il governo talebano oppure no? Se lo dovesse riconoscere allora si potrebbe tornare a parlare di sviluppo, se così non fosse ci troveremmo davanti a una condizione di assistenzialismo. In pratica, abbandonati i progetti per la crescita del Paese, l’Afghanistan sarebbe interessato esclusivamente da missioni umanitarie per dispensare i beni essenziali alla vita. Una condizione che fa perdere le speranze sia per i grossi centri che per le aree marginali, tra le montagne del Paese.

Ci sono 10 milioni di bambini che hanno bisogno di urgente intervento sanitario, non solo a causa di quest’ultima emergenza” spiega Andrea Iacomini, portavoce UNICEF Italia. “Su 18 milioni di persone che necessitano di aiuto, la metà sono bambini. Nel sud del Paese un milione e mezzo di bambini non va a scuola, una bambina su tre si sposa prima dei 18 anni, per non parlare delle migliaia di segnalazioni alle Nazioni Unite per violazione dei diritti di bambine e bambini. Per questo UNICEF è presente dagli anni Sessanta e ha scelto di rimanere, chiedendo sostegno per riportare i giovani nelle scuole e un ponte aereo umanitario per aiutare la popolazione”. La partenza delle forze internazionali apre un vuoto enorme tra le montagne dell’Afghanistan, ma è presto per comprendere quel che potrebbe accadere. Per ora possiamo solo guardare tra cime, creste, valli e sentieri ammirando la bellezza di un Paese che vede speranza proprio tra quelle montagne irte e difficili. Migliaia di donne e bambini si sono rifugiate lì dove, tra verticali pareti, Ahmad Massoud junior prepara e organizza la sua resistenza.