Gente di montagna

Steve House

“L’alpinismo non è sport perché non c’è competizione e ha bisogno d’altro, non soltanto di un’ottima preparazione fisica. Non diverte la gente, ma la ispira. Il suo racconto è enfasi dell’avventura.”

Steve House

Definito da Reinhold Messner come il miglior alpinista d’alta quota dei nostri tempi, Steve House è una leggenda vivente. Convinto sostenitore dello stile alpino, guida, motivatore e autore. Ha segnato un periodo importante nella storia alpinistica dell’altissima quota. La nuova via disegnata sul pilastro centrale della parete Rupal, sul Nanga Parbat, insieme a Vince Anderson rimane come una delle più belle pagine dell’alpinismo moderno. La sua etica gli impone di non lasciare traccia di passaggio sulle montagne, ma non solo. Come ci ha dimostrato sul Nanga si può fare un alpinismo d’altissimo livello ripulendo la via da quel che si incontra. In fondo è “sufficiente un po’ di attenzione in più per riuscire a fare un alpinismo in armonia con la natura”. Ma, senza esagerare perché, come riconosce lo stesso scalatore, è impossibile essere in totale armonia: “portiamo giù i rifiuti, ma arriviamo in Pakistan con l’aereo”.

La vita

Nato in Oregon, nel piccolo centro di La Grande, il 4 agosto 1970 Steve House si avvicina alla montagna fin da piccolo, grazie al padre.

Nel 1995 si laurea in Scienze Ecologiche presso l’Evergreen State College mentre nel 1999 completa il percorso per diventate guida alpina, entrando a far parte dall’Union Internationale des Associations de Guides de Montagnes. Con l’arrivo degli anni Duemila la montagna diventa quindi la sua professione, sia come guida, sia come esperto tester di prodotti.

Nel 2015 fonda, insieme Scott Johnston, Uphill Athlete una piattaforma dedicata alla condivisione di conoscenze legate al mondo dell’alpinismo, dell’arrampicata, dello scialpinismo e delle altre discipline outdoor.

Oggi, insieme al compagno del Nanga Parbat Vince Anderson, offre servizi come guida alpina in tutto il mondo.

Sposato diventa papà per la prima volta nel 2016, una seconda volta nel 2019.

L’alpinismo

Steve House ha iniziato a frequentare la montagna quando ancora era molto giovane, molte delle sue giornate adolescenziali le ha trascorse sulla roccia di Smith Rocks, in Oregon. Il suo vero “apprendistato” in termini alpinistici avviene durante un anno di studi in Slovenia. Qui scopre velocità e leggerezza e quando fa ritorno in America sa di avere un bagaglio di esperienze diverso, che gli avrebbe poi permesso di maturare la sua filosofia alpinistica votata allo stile alpino.

Le sue prime mete di livello lo portano verso le grandi montagne dell’Alaska, dove in breve tempo porta a termine significative salite con uno stile veloce e leggero. First Born sul Denali, con EH Helmuth, è il primo esempio di quello che sarà il marchio alpinistico di House. Nel 1996 è sempre sul Denali, questa volta in solitaria, per l’apertura di Beauty is a Rare Thing sulla parete ovest. “Non avevo intenzione di aprire una via quel giorno” il suo semplice commento. Un anno dopo è ancora sul Denali, questa volta insieme a Steve Swenson, per aprire Mascioli’s Pillar via di roccia e misto che i due completano in sole 34 ore. Arriviamo al 1998, quando House traccia in inverno The Gift That Keeps On Giving sulla parete sud del Mount Bradley insieme a Mark Twight e Johnny Blizz. Poco dopo eccolo in velocità sul king Peak, sempre il Alaska. Si tratta della nona montagna del nord America e la sua ascensione, realizzata insieme a Joe Josephson, è la quarta assoluta alla vetta. Salgono per una via nuova, Call of the Wild, in sole 34 ore.

Il 1999 lo vede all’opera nel sud del Canada, sull’Howse Peak, insieme a Barry Blanchard e Scott Backes. Salgono in inverno per una via nuova lungo la parete est, ed è una vera e propria avventura complicata da un grave incidente che coinvolge Blanchard. Un grosso fungo di neve lo travolge provocandogli diversi traumi tra cui la frattura alla tibia.

Il nuovo secolo trova Steve House nuovamente alle prese con il Denali insieme a MarkTwight e Scott Backes. Il terzetto realizza la seconda ripetizione della Slovak Direct lungo la parete sud. Per farlo impiegano 60 ore non stop. Questa ripetizione in velocità ha rappresentato per House l’importante chiusura di un cerchio. “Salire questa via mi ha lasciato psicologicamente prosciugato per oltre un anno” racconta. “In parte per il vissuto in parete, in parte per la consapevolezza di aver concluso ciò che avevo iniziato sette anni prima in Alaska”. La diretta slovacca ha sicuramente rappresentato il completamento di un percorso personale, ma non ha di certo allontanato Steve House dalle montagne del nord America. Meno di un anno dopo eccolo infatti, con Rolando Garibotti, alle prese con il Mount Foraker dove apre The Infinite Spur lungo la parete sud. Anche questa salita viene effettuata in velocità, i due impiegano circa 25 ore e mezza per la salita a una ventina per fare ritorno ai piedi della parete. Poco dopo, con lo stesso compagno, si cimenta sulla est del Mount Fay in velocità: su e giù in 34 ore per una via nuova (Sans Blitz).

Il 2002 potremmo definirlo come il battesimo dell’altissima quota per House. Spinto dalla voglia di “imparare cosa significa scalare un Ottomila non-stop” Steve decide di cimentarsi sul Cho Oyu. Sale in solitaria, per la via normale, impiegando 27 ore tra andata e ritorno. Poco dopo eccolo tornare alle salite tecniche che l’hanno consacrato tra i migliori alpinisti del nostro tempo: Nuptse (7861 m) insieme a Marko Prezelj e Barry Blanchard. I tre salgono per una via nuova lungo il pilastro sud-sudovest fino a circa 7200 metri, dove poi si ricongiungono con la via Bonington che seguono fino in cima. Il 2003 è ancora in Alaska, ma ormai l’Himalaya l’ha rapito eccolo così avventurarsi in solitaria sull’allora inviolato Hajji Brakk (5985m, Charakusa Valley, Pakistan) dove sale e scende in sole 19 ore. Sempre nella Charakusa Valley e sempre in solitaria apre un nuovo percorso sul difficile K7 (6942 m). Impiega 41 ore in tutto, si tratta della seconda ascensione assoluta alla montagna. Poi, tenta il Nanga Parbat con Bruce Miller. Siamo nel 2004 e i due alpinisti affrontano per 4 giorni difficoltà estreme sul pilastro centrale della Parete Rupal. Toccano i 7500 metri, quindi rinunciano e iniziano una lunga sequenza di calate in doppia seguendo la via Messner del 1970.

Rimasto con un conto in sospeso House torna al Nanga Parbat nel 2005 insieme a Vince Anderson. È il primo settembre quando i due attaccano la parete coscienti che il progetto gli avrebbe richiesto più giorni. Otto, in particolare, su difficoltà estreme, su una parete alta 4100 metri. Si muovono in stile alpino, leggeri e veloci, spesso oltre il limite. “Sul Nanga Parbat ci siamo spinti ben oltre il limite possibile. Ricordo in particolare la mezzanotte del terzo giorno come uno dei momenti più complessi da gestire”. La notizia della loro salita fa il giro del mondo e viene celebrata come una ventata di aria fresca, come un gesto innovativo nel mondo dell’alpinismo.

Il successo sul Nanga Parbat non fa perdere ad House la voglia di esplorare e così eccolo tentare la parete ovest del Makalu. Ci prova per ben tre volte: nel 2008, nel 2009 e nel 2011. L’ultima lo vede partire meno di un anno dopo un terribile incidente che lo coinvolge sul Mount Temple, nelle montagne Rocciose canadesi. Un volo di 25 metri che gli provoca la rottura di sei costole e di diverse vertebre e il collasso del polmone destro.

Onorificenze

2006 – Piolet d’Or per la nuova via sul Pilastro Centrale della Parte Rupal, insieme a Vince Anderson.

Libri

  • Oltre la montagna, 2009, Priuli & Verlucca
  • Allenarsi per un nuovo alpinismo. Il metodo per il successo nell’alpinismo e nell’arrampicata, 2020, con Scott Johnston, Mulatero

“Tutti gli alpinisti si trovano nel corso della loro carriera ad andare oltre i propri limiti. Alcune volte va bene, in altre occasioni ci si mette la sfortuna. È importante per un alpinista non porsi limiti, ma sapere fin dove spingersi, avvicinarsi a questi e fare tutto quel che è nelle proprie capacità per ritornare sani e salvi al campo base.”

Steve House

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3 Commenti

  1. Gli sloveni gli hanno fatto vedere e imparare tutto ciò che si sapeva sull’alpinismo d’altissimo livello e poi lui ha fatto qualche passo in più !
    Geniale !

  2. Grande alpinista, ma, a mio avviso, sopravvalutato.
    La sua scalata sul Nanga Parbat è una perla preziosa che però non aggiunge nulla di nuovo a quanto fatto alle salite precedenti di Kurtyka e Schauer sul G4 o successive come quella di Urubko e socio sul Cho Oyu (questa per altro molto più difficile tecnicamente anche se inferiore per sviluppo) o Steck in solitaria sull’Annapurna.
    Polemico fino all’eccesso, ricordo la sua crociata contro la vittoria russa al piolet d’or per la salita della parete nord dello Jannu fatta in stile pesante a scapito della sua solitaria sul K7 tutto sommato non così alpinisticamente significativa ed assolutamente irrilevante rispetto alla grandiosità dell’impresa premiata. A mio avviso un Urubko od uno Steck hanno fatto molto di più parlando molto meno.

    1. Concordo completamente con te, ma aggiungerei che lui per prima cosa è un uomo di cultura americana, ha fatto grandi salite innovative di misto dalle sue parti anche in velocità e porta avanti una scuola che sforna alpinisti, e quindi è un alpinista poco “sterile”….. forma altri alpinisti.
      I due altri “geni” che citi sono della generazione alpinistica successiva…. difficile paragonare le salite di Bonatti (il suo idolo) a quelle di Messner.

      Comunque sono sempre opinioni, l’alpinismo non può essere misurato: fortuna e sfortuna !

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