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ClimbAID. L’associazione che aiuta i rifugiati siriani in Libano con l’arrampicata

La valle della Bekaa, lo sa bene chi abbia avuto modo di fare un viaggio in Libano negli ultimi anni, è una delle aree del Paese maggiormente sconsigliata ai turisti da parte della Farnesina. In particolare per quanto concerne le località in prossimità del confine siriano, come si legge sul sito viaggiaresicuri.it, teatro di scontri tra le parti belligeranti in Siria e le Forze Armate Libanesi, nonché in anni recenti di attentati suicidi ed azioni della criminalità comune (rapine e sequestri di persona, che prendono spesso di mira occidentali a scopo di estorsione)”.

Un’area in cui il numero di rifugiati siriani ha “da tempo superato, di molto, quello della locale popolazione libanese, alimentando dissidi e un sentimento di ostilità”.

C’è chi, di fronte a queste premesse, nella Bekaa si dirige con un proposito preciso, che è quello di supportare i rifugiati. Tra le tante associazioni solidali ve ne è una che vanta tra i suoi ambasciatori nomi noti del mondo dell’arrampicata e dall’alpinismo, quali Arnaud Petit, Stephanie Bodet, Nina Caprez e Fred Nicole.

Il nome di questa ONG è ClimbAID, creata a Zurigo nel settembre 2016 con l’obiettivo di utilizzare l’arrampicata e gli sport di montagna come mezzo di inclusione sociale. 

Al momento i progetti all’attivo sono 2.

Il primo si intitola “MAXI FAMIGLIA” e ha la finalità di introdurre i richiedenti asilo giunti in Svizzera da tutto il mondo all’arrampicata, organizzando 5-6 sessioni indoor a settimana nelle città di Zurigo, Lucerna e Winterthur, a cura di una rete di volontari che spera di estendersi anche in Francia.

“A ROLLING ROCK” è invece il progetto avviato in Libano, nella zona della Bekaa, per “portare colore, movimento e gioia” in quest’area che paga le conseguenze di conflitti armati fin dal 1975, anno dello scoppio della guerra civile libanese.

Un camion alto 3 metri e mezzo chiamato “The Rock” che si sposta tra i campi profughi della Bekaa, trasportando una parete di arrampicata mobile destinata ai giovani. È a loro che si rivolge l’attenzione maggiore di ClimbAID sperando di donare, attraverso l’arrampicata, una alternativa di sport e svago, di supporto per la salute del corpo e della mente. Alla guida dello speciale camioncino il climber svizzero Beat Martin Baggenstos.

La nascita dell’associazione si deve proprio a Baggenstos che, nel corso dei suoi viaggi attraverso Argentina, Messico e Etiopia, si rese conto di quanto il mondo dell’arrampicata fosse affetto da un difetto di classe. Chi arrampica appartiene alla fascia ricca della popolazione, le attrezzature sono costose e chi giornalmente deve lottare per sopravvivere non si diletta certo a fare il climber. Durante un periodo di volontariato in Libano nel 2015 partecipò a un progetto solidale basato sull’arrampicata come sostegno per le fasce povere ma ancora limitante, in quanto la presenza nel team di giovani sunniti siriani risultava invisa alla maggioranza dei maroniti cristiani. Problema ulteriore era rappresentato dal superamento dei check point per raggiungere le zone montuose del Nord del Libano, per i quali i siriani non avevano i documenti necessari. Beat Martin decise di arrendersi. Ma per poco.

Nel 2016 l’intuizione: fondare un’associazione che andasse direttamente a casa di coloro che non possono spostarsi in quanto rifugiati. “Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto”, è proprio il caso di dirlo!

Il progetto è partito grazie al supporto di dozzine di volontari che in Svizzera hanno offerto competenze, materiale e denaro, raggiungendo una cifra idonea all’acquisto di “The Rock”, che ha iniziato il suo viaggio nell’agosto 2017. Da allora sono stati introdotti all’arrampicata circa 150 rifugiati siriani. E i risultati sono notevoli! Sette ragazzi hanno partecipato il 19 maggio al primo boulder contest di Beirut, evento che ha ospitato climber provenienti da tutto il Libano.

Ogni giorno il camion si sposta in un villaggio di rifugiati e offre sessioni a provetti climber tra i 12 e i 40 anni. La sfida vinta in parete diventa fonte di una sensazione sconosciuta a questi emarginati: la realizzazione. I volontari cercano dunque di instillare nella coscienza dei rifugiati l’idea di potercela fare, perseverando, non solo in parete ma nella vita di ogni giorno.

L’obiettivo maggiore di ClimbAID è quello di formare questi ragazzi per organizzare competizioni tra i migliori di ogni insediamento nel mese di ottobre, possibilmente senza distinzione di sesso. Un particolare che in alcuni clan non è ben accetto, come l’Alahmad, in cui le giovani possono scalare solo finchè sono ancora bambine, poi è tradizione che si allontanino dagli spazi pubblici. Il fenomeno delle spose bambine è purtroppo una realtà in queste zone.

Al di là delle difficoltà, sono tanti i ragazzi che, fuggiti con le proprie famiglie dalla guerra in tenera età, iniziano a sognare di diventare arrampicatori o alpinisti. Andare via dal campo verso vette sempre più elevate, dove non arrivi il suono delle bombe.

 

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