Arrampicata

Alain Robert e la Free Solo mania. “I media dimostrano di non conoscere la storia dell’arrampicata”

Pochi giorni dopo la notte degli Oscar, cerimonia seguita quest’anno anche dagli appassionati di montagna in attesa di vedere Alex Honnold innalzare al cielo la prestigiosa statuetta, sulla bacheca di un altro celebre climber, che sullo schermo siamo però abituati a vedere in versione “spiderman” sulle pareti verticali dei più alti palazzi del mondo, si è aperta una discussione attorno al tema del free solo.

Stiamo parlando di Alain Robert, classe 1962, le cui imprese su roccia degli anni ’80 e ’90, come l’epica salita in solitaria senza assicurazione di Pol Pot (7c+) in Verdon, hanno attirato in quella che era l’epoca senza internet ben poca attenzione da parte dei media, che sembrano invece averlo scoperto soltanto quando ha iniziato a scalare grattacieli.

Dall’inizio di marzo sulla sua pagina Facebook sono apparse numerose sue foto in versione free soloist, che sembrano malcelare un “retrogusto di amarezza nei confronti dei media”. Queste le parole del climber Maurizio Oviglia, che ha pubblicato un lungo post di analisi della carriera di Alain e di quello che può essere in questo momento il suo stato d’animo di fronte al grande successo mediatico di Alex Honnold.

Ispirati dal ragionamento di Oviglia, abbiamo deciso di fare una chiacchierata direttamente con Alain, che ci ha volentieri esternato le sue sensazioni per evitare che, anche a causa dei soliti media, possa circolare la voce di una sua gelosia nei confronti di Alex.

 

Nella tua carriera ti sei cimentato in salite in free solo più volte tra gli anni ’80 e ’90, passate un po’ in sordina. La vittoria di questo Oscar ti ha portato a pensare di essere forse nato nell’epoca sbagliata?

Non so se sia il caso di parlare di epoca sbagliata. Il free solo è sempre stato visto come qualcosa di politicamente scorretto in quanto va contro i valori che la società moderna ci propina ogni giorno. Non è che il premio Oscar sia stato vinto perché oggi questa disciplina sia più accettata di un tempo. La verità è che Alex, che è un grande climber, ha avuto la possibilità di incontrare Jimmy Chin, che è un impareggiabile regista, e insieme sono stati in grado di convincere National Geographic ad investire nel documentario milioni di dollari. La parete già di suo è spettacolare, tutta la troupe impegnata nelle riprese era comunque composta da climber con ottima esperienza. Se metti insieme tutte queste cose è abbastanza normale  arrivare a conquistare un Oscar come miglior documentario. Non sono affatto rimasto sorpreso!

Se ti chiedessimo allora come ti senti?

Mi sento un po’ triste, ma non certo per non aver mai vinto un Oscar! Non provo alcuna gelosia nei confronti di Alex, questa cosa vorrei fosse chiara. È piuttosto una mia questione personale, sono diventato molto mediatico in tutto il mondo soltanto per le mie salite sui grattacieli. È come se a livello di pubblico e giornalismo questa sia l’eredità che lascerò al mondo. Ma è totalmente incompleta. La mia eredità, quella vera, è rappresentata dalle mie arrampicate su roccia, fino all’8b/8b+, compiute 30 anni fa, così come dai numerosi palazzi che ho scalato in questi anni.

Considera che all’epoca di Pol Pot, Alex ancora indossava i pannolini! Non c’era internet 30 anni fa, era un mondo diverso. Adesso stiamo tutti sugli smartphone, non ci si parla quasi e i giornali non specializzati ovviamente puntano sulla spettacolarizzazione delle informazioni.

Ci racconti un po’ dell’esperienza di Pol Pot?

Pol Pot è un terrificante 7c+ nelle Gole del Verdon. Sei a 250 metri da terra in una località magnifica della Francia. Ci sarebbero stati tutti quegli ingredienti che avrebbero reso fantastico un documentario. Invece mi sono trovato di fronte i notiziari televisivi evidentemente a corto di personale con competenze idonee a realizzare quel tipo di riprese. Era il 1996. Una salita che ricorderò per sempre in quanto credo sia una esperienza che puoi fare una sola volta nella vita. È una placca calcarea, con prese minuscole, quasi invisibili, devi avanzare in aderenza o compiere dei dyno, è stato praticamente come gareggiare contro i leoni in un’arena. Le mie possibilità di farcela erano tante. Ma anche le possibilità di non farcela! Alla fine ero distrutto, non puoi immaginare il male alle mani e ai tendini.

Pensi si possa fare una comparazione con Freerider?

Una comparazione tra Freerider e Pol pot o la Nuit de Lezard a Buoux, che sono entrambe vie di grado più elevato ma più corte, è decisamente impensabile. Non c’è niente da comparare perché El Cap è diverso dalle Gole del Verdon. Ciò che rende difficile un free solo non è il grado ma lo stile. È possibile che il passaggio più complicato di Freerider cui si è trovato di fronte Alex non sia stato il più complesso in termini di grado ma magari qualche sezione a placca insidiosa ma di grado più basso. Non sono stato su Freerider quindi non posso dare opinioni tecniche.

Se non esiste comparazione possiamo dire che non esista neanche competizione?

Esatto, non esiste competizione. Ancora una volta ci troviamo di fronte a una invenzione dei giornalisti. Si sono focalizzati su un’unica persona per certificare che l’impossibile sia stato raggiunto e dichiarando che i giochi siano finiti. Che conclusione idiota per le generazioni future! Il problema non è certo rappresentato da Alex che è un mio amico. Il grande errore dei media è stato ignorare totalmente finora la storia del free solo, di cui io sono un attore ma ce ne sono altri. In un libro di Alexander Huber vengono citati diversi nomi che i giornalisti dovrebbero annotarsi, tra cui anche il mio e quello di Alex. Se posto le mie foto su roccia è proprio per far capire al mondo che il free solo ha una storia con un passato e un futuro, non possiamo fermarci. The game is not over. È una situazione decisamente inaccettabile se consideriamo che la funzione dei media dovrebbe essere quella di informare. Come puoi informare correttamente se sei il primo a non sapere le cose?

Hai mai pensato di arrampicare su El Capitan?

Sinceramente ero interessato ad arrampicare slegato su El Cap. Dopo aver salito Pol pot sapevo che avrei avuto una possibilità di farcela. Ne parlai con Lynn Hill e Ron Kauk, così come con altri specialisti di Yosemite ma tutti mi dissero che la Salathé wall e il Nose fossero le uniche vie percorribili e che il free solo lì fosse impensabile. Era il 1994, avevo anche pensato di trascorrere un anno a Yosemite ma dopo aver discusso con Lynn ho lasciato stare.

Alex ha avuto l’idea di cercare un’altra strada per evitare i due passaggi più duri della Salathé wall e la sua nuova combinazione ha poi preso il nome di Freerider (linea inventata negli anni ’90 dai fratelli Huber, ndr).

Ancora una volta vorrei sottolineare che la stima tra me e lui è reciproca! Conosce bene la mia storia e ne ha parlato anche al New Yorker qualche anno fa.

Ultima domanda. Qualcuno in questi giorni ti ha definito un po’ ipocrita. Insomma critichi i media ma poi vivi grazie a loro?

Arrampicare sui palazzi porta guadagni, certo. Non sono più un ragazzino e ho deciso dei seguire questa nuova via e in ogni caso si tratta di arrampicate complesse che mi avvicinano alla gente ed è bello poter condividere queste esperienze con loro. Per sopravvivere come climber necessiti di sponsor e media e quindi devi per forza adattarti. Quando sei giovane non ti preoccupi dei guadagni, neanche ti chiedi dove dormirai. Più volte ho dormito in caverna mentre ero in giro ad arrampicare, non ti fai problemi, trovi sempre una via di uscita. Ora sono cresciuto e ho altre priorità e i soldi, tocca ammetterlo, sono indispensabili.

Che poi la moneta è proprio la chiave di tutto, come dicevamo anche in merito all’Oscar. Con piccoli budget non ce la fai a metter su un lavoro come quello fatto da National Geographic per “Free solo”. Io stesso ho un bel progetto in mente, che dovrebbe iniziare a giugno e, in base alle finanze, potrebbe sfociare in un bel film.

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