Alpinismo

[:it]A proposito di Nanga, K2 e invernali[:]

[:it]BERGAMO – Il commento di Stefano, un nostro lettore, su montagna.tv è interessante: parlando dell’ipotesi di un tentativo invernale al K2 indica alcuni temi strategici e pone dei “paletti”.

L’acclimatamento è e sarà un punto fondamentale per la prestazione atletica in alta quota, ma partiamo dalle basi fisiologiche della questione: arrivati a 5000 metri, quota dove di solito si posiziona il campo base (al Nanga è a 4400m) prima di poter compiere il tentativo alla vetta, bisognerebbe trascorre un minimo di 20 giorni. Ma siamo veramente al minimo. Certo dipende anche se si tratta di un 8000 basso o alto, intendendo la differenza tra lo Shisha Pangma (8013 m) e l’Everest (8850m), ovvio che quegli 800 metri fanno veramente la differenza. Dopo quattro settimane, qualche escursione attorno ai 6000 metri e magari una puntata con pernottamento sopra i 7000m di solito di solito si ha un buon acclimatamento. Dipende anche dalla fisiologia individuale ed è ovvio che molto dipende dalla “forma atletica” di base dell’alpinista. L’allenamento deve esser ottimo sul piano fisico-atletico e finalizzato al tipo di prestazione che si pensa di dover effettuare. In questo ragionamento è ovvio che anche la preparazione mentale e psicologica, quindi le motivazioni, l’entusiasmo, la razionale interpretazione della prestazione alpinistica, la lettura della montagna e delle sue condizioni devono far parte di questo buon stato di forma.

Quest’anno tutti i competitors del Nanga hanno effettuato un periodo di pre-acclimatamento.

Il che vuol dire che prima del 21 dicembre, data che consente di partire per la propria salita sulla montagna, tutti avevano svolto attività in quota per poi arrivare al campo base già in forma e “pre-acclimatati”, accorciando, questo era l’intento, i tempi della spedizione vera e propria, così da approfittare delle finestre di bel tempo di fine dicembre, gennaio.

Simone è andato con Tamara allo Spantik, non ci si è nemmeno avvicinato per mortivi logistici e quindi niente pre-acclimatamento. Alex e Nardi hanno salito un po’ di cime e dormito in quota in Argentina ed anche i polacchi si son esercitati sul Rakaposchi e dintorni. Credo che Ali Sadpara se ne sia stato a casa sua, per l’appunto a Sadpara, un villaggio sopra Skardu.

Alla luce di quel che poi è accaduto, se anche Simone e gli altri ci offrissero la loro opinione in merito sarebbe d’aiuto per il futuro, ho come l’impressione che il pre-acclimatamento funzioni poco o solo se dopo il 21 dicembre si presentano delle finestre di bel tempo di almeno 4/5 giorni, magari nella seconda metà di gennaio. In questo caso le 4/5 settimane di acclimatamento che si hanno alle spalle consentirebbero una buona prestazione, senza che il processo di affaticamento e stanchezza, anche psicologica, si sia già avviato.

È solo questo il caso in un alpinista, che abbia iniziato già da un paio di settimane prima dell’inizio dell’inverno ad acclimatarsi, possa trarne vantaggio. Per contro, partire troppo in anticipo, a inizio dicembre, soprattutto esecrandosi in Pakistan, ambiente splendido, ma austero e per nulla confortevole, può portare, soprattutto se il “brutto tempo” si protrae a lungo come quest’anno, alla fase di declino delle forze e della forma in generale, che inevitabilmente dopo 7/8 settimane inizia a intaccare la prestazione dell’alpinista: insomma quando si inizia ad averne piene le scatole. E qualcosa di simile l’abbiamo intuito anche al Nanga. I vantaggi del pre-acclimatamento forse non compensano gli svantaggi se la permanenza sulla montagna per motivi climatici si allunga.

Nel caso del K2 poi, come sottolinea Stefano, c’è il problema di posizionare campo 4 a una quota di almeno 7.700 metri (misure GPS effettuate da EvK2CNR nel 2014) e con esso per gli alpinisti il problema correlato di salire il più in alto possibile per passarci almeno una notte.

Ma dormire almeno una notte a 7.700 o a 7300 (quota di campo 3)?  Credo cambi poco.  Certo che sarebbe però importante riuscire a dormire almeno a 7200 metri e rientrare poi al base prima della finestra del tentativo finale: in questo modo si avrebbe anche garantita (anche se da quelle parti il garantire qualcosa in inverno è veramente difficile) una posizione logistica ottimale per salire e posizionare campo 4 più alto di qualche centinaio di metri e tentare a seguire la vetta.

La questione dell’uso dell’ossigeno sollevata da Stefano credo non si ponga: nessun alpinista di buon gusto e nessuno sportivo dei giorni nostri penserebbe di tentare una sfida così formidabile mettendosi nella condizione di “barare” con la quota vera della montagna e fisiologica dell’alpinista.

Non si deve salire a tutti i costi come pensava Desio nel 1954. Allora era così e lo acquisiamo come dato storico alpinistico. Oggi è diverso e il valore della montagna è quello che mette in campo l’alpinista che la sale. Svilire il K2 (“un sogno di montagna”, lo ha definito Kurt Diemberger) con l’uso dell’ossigeno a me parrebbe veramente poco “sportivo”.

Per avere una chance di successo la questione vera, a mio parere, è legata invece alla velocità di esecuzione e quindi ad un allenamento dedicato questo obbiettivo, tenendo conto che fino a campo 3 (nevaio sopra la piramide nera, 7300 mt) si dovranno riattrezzare dei pezzi importanti della salita, anche per garantirsi un rapido rientro, e che da lì in su ci dovranno essere almeno sei alpinisti di livello “stellare” per installare campo 4 alla spalla, battere la pista fin sotto al Collo di Bottiglia per poi superarlo, andando fino all’estrema sinistra del seracco pensile, ed arrivare nella neve sopra il seracco, fino alla cresta spartiacque della vetta.

Certo l’ideale sarebbe avere alpinisti in grado di salire direttamente dal campo base al campo 4 ed il giorno dopo di andare in vetta. Ueli Steck docet, ma anche Benoit Chamoux.

Ma d’inverno le giornate sono brevi ed il freddo troppo intenso durante la notte per non rischiare congelamenti. Quando Benoit Chamoux, nella mia spedizione del 1986, partì alle 17,30 dal campo base per andare direttamente in vetta era in calzamaglia ed ha continuato a salire per tutta la notte fino all’alba indossando una tuta semileggera d’alta quota. Faceva freddo, ma non era tremendo e il movimento era bastato a non produrre danni.

D’inverno no! Non credo sarebbe possibile passare fuori un’intera notte: troppo freddo ed i movimenti in salita rischiano di essere troppo lenti.

La velocità, di gambe e di testa, sarà l’arma vincente nel caso si tentasse il K2 e su questo dovrà vertere l’allenamento vero a cui sottoporsi ed adattarsi. In questo caso il pre-acclimatamento dovrà esser al massimo di un paio di settimane precedente all’arrivo al campo base, altrimenti anche se utile, rischia di appesantire la prestazione dal punto di vista della fatica accumulata e dell’esaurimento psicologico. Ma siamo nel campo delle congetture, delle “ciacole”, magari con un po’ di esperienza alle spalle.

Dopodiché se a tentare la vetta fosse un gruppo di polacchi, con un gruppo di pakistani e magari un paio di italiani, mettere insieme le attitudini, le idee, le consuetudini ed i consolidati comportamenti alpinistici di ognuno sarebbe una sfida ardua quasi quanto quella della vetta.

L’altra dote per garantire il successo sarà la pazienza, che è fatta dallo star veramente bene al campo base, dal buonumore, dalla tolleranza, dalle motivazione e dall’ambizione anche individuale. Ognuno con la consapevolezza che la sua forza da sola non può bastare per salire questa montagna in inverno e che solo da un perfetto gioco di squadra potrà sortire la speranza di un successo.

La pazienza e la velocità sono le virtù indicate da Messner per la riuscita del Nanga Parbat, a maggior ragione lo saranno per il K2.

 

 

 

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