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Agostino Da Polenza: Everest, Share e un orgoglio tutto italiano

Agostino Da Polenza
Agostino Da Polenza

BERGAMO – Orgoglio, esperienza, emozione e rigore scientifico. Con queste parole Agostino Da Polenza, presidente del Comitato EvK2Cnr, descrive la missione Share Everest 2011 che a fine maggio ha installato agli 8000 metri di Colle Sud dell’Everest la stazione di monitoraggio più alta del mondo, che invia dati in tempo reale sul clima a quella quota alla comunità scientifica internazionale. In questa intervista, Da Polenza racconta difficoltà ed emozioni di una missione che ha vissuto dal vivo, tra il campo base e il Laboratorio Piramide, e che ha portato EvK2Cnr a compiere un altro passo importante e unico nella sfera scientifica mondiale.

Da Polenza, Share Everest 2011 si è conclusa con un altro successo alpinistico e scientifico per Evk2Cnr. Un suo commento.
Possiamo parlare anche di due successi. Il primo è sicuramente quello scientifico, perché i dati da Colle Sud arrivano regolarmente in Piramide, la stazione sembra funzionare bene, e gli inconvenienti di 3 anni fa sembrano risolti. E’ stato studiato un buon sistema energetico per questa nuova stazione, speriamo che non ci siano condizioni meteo climatiche così terribili da inficiarne il funzionamento. A quella quota tutto è possibile. Il secondo è l’ottimo lavoro di squadra avuto con gli sherpa che abbiamo dovuto evidentemente arruolare: due di loro avevano già lavorato con noi e tra loro c’era Pema, un membro dello Staff Piramide molto appassionato e molto bravo, che li ha coordinati. Questo ci da la possibilità di pensare che se tra qualche anno servirà una manutenzione straordinaria gli sherpa potranno forse potranno essere autonomi nel portarla a termine.

E gli alpinisti italiani?
Bene anche i due alpinisti italiani: Daniele Bernasconi e Daniele Nardi sono totalmente diversi, forse contrapposti dal punto di vista caratteriale e dello stile. Ma questo avere passione per cose diverse li ha portati a fare tutto: Nardi, che ha una certa esuberanza comunicativa, l’ha espressa totalmente producendo buone immagini e fotografie. Penso potrebbe diventare uno splendido documentarista d’alta quota. Bernasconi invece si è messo in disparte rispetto alla comunicazione e ha diretto la missione sul piano logistico/alpinistico, ha dato i ritmi del lavoro e si sono visti i risultati.

Quali sono state le difficoltà maggiori della spedizione?
Forse ce n’è stata qualcuna proprio con gli sherpa, nelle battute finali della spedizione. Il loro mondo, estremamente contaminato dal circuito mediatico e commerciale che si è sviluppato intorno all’Everest, li ha portati a tendere alla contrattazione e alla prestazione nella maniera più bieca possibile: se gli dai 15 kg da portar su ok, se sono 15 kg e 500 grammi nascono discussioni infinite. Alla fine, hanno fatto il loro lavoro, ma abbiamo avuto una discussione al campo base che forse è giusto raccontare. Loro non volevano più risalire a Colle Sud, dicevano di aver completato il loro compito portando su la stazione. La verità è che lo avevano fatto, ma non avevano portato giù tutto quello che era avanzato della vecchia stazione: c’era dell’immondizia elettronica a Colle Sud che rischiava di rimanere lì e far fare a noi e al mondo della scienza una figura orribile. Dopo la discussione hanno capito che questo lavoro di pulizia andava fatto, e senza nessun aggiunta sono andati su a pulire. Da un lato queste trattative pesano, ma dall’altro è bello vedere che c’è anche in loro questa nuova sensibilità ambientale.

La vetta non era programmata. Ma le è dispiaciuto che non abbiano tentato?
Sapevamo che sarebbe stato difficile portare su il sensore, e che avevamo un unico tentativo a disposizione nei pochi giorni che precedevano la chiusura dell’Icefall. Ma le condizioni erano sfavorevoli, e ragionevolmente devo dire che non si poteva fare. Alla fine, di buon grado, tutti hanno accettato la rinuncia. Dispiace sempre, ma bisogna prendere anche queste decisioni per fare le cose bene. In fondo, la missione per cui eravamo partiti era già stata compiuta. E comunque il sensore è andato fino a Colle Sud, ed è stato utile testarlo perché andrà adattato alla maneggevolezza che serve per la vetta, ad esempio c’erano viti troppo piccole difficili da gestire coi guanti.

Da esperto capo spedizione, quindi, prima la scienza e poi l’alpinismo.
No, non scherziamo, non ero il capo spedizione. I ragazzi sono stati bravissimi e hanno gestito loro tutto. Certo, io avevo la responsabilità come presidente di Evk2Cnr, ma sono ormai abituato a queste spedizioni. Devo dire che comunque con l’età, pesa sempre di più il tema della sicurezza, il pensiero dell’incolumità delle persone. Ci ho pensato quando è stata presa la decisione della rinuncia alla vetta. Analizzando le condizioni con molta consapevolezza abbiamo deciso di non procedere, avevamo fatto il dovuto e non era il caso di andare oltre. Ci vuole meno azzardo più attenzione agli altri.

Anche la webcam sull’Everest ha riscosso molto successo: ve lo aspettavate?
Sì è stato un grande successo. Era un progetto a cui con Giampietro Verza pensavamo da un anno e mezzo. Poi abbiamo trovato queste webcam di ultimissima tecnologia che danno immagini ad alta risoluzione ogni secondo, anche se sul web si vedono ancora ad un minuto di distanza. Sembra davvero un film della giornata dell’Everest che trascorre. Lavorare con questi impianti, che sono lì in mezzo alle montagne, è vero un po’ in disparte rispetto alle vie di salita, ma sono soli in balia del meteo, è sempre un’emozione che dà qualche ansia ma tanta soddisfazione.

Tutte queste strumentazioni fanno capo alla Piramide, che come laboratorio tecnologico cresce sempre più. Che cosa pensa ogni volta che ci ritorna?
Tutte le volte che si ritorna alla Piramide è una grande emozione, perché si rivivono sentimenti e ricordi legati a questo luogo. C’è una storia, di Ardito Desio, di decine di ricercatori di fama, di risultati e pubblicazioni scientifiche, e c’è la consapevolezza che questo luogo sta diventando il punto di riferimento per il monitoraggio dell’ambiente in alta quota su due livelli: uno è quello tecnologico, per le strumentazioni attive, e l’altro è quello dei dati che vengono prodotti qui e inseriti in circuiti internazionali come quelli del Wmo, dell’Unep, dell’Abc. C’è la consapevolezza che ci sono solo 33 stazioni al mondo inserite in questo circuito Gaw della Wmo. E’ un orgoglio. Per me arrivare alla Piramide è un po’ come quando da giovane arrivavo in cima alle montagne, cioè arrivi in un punto dove si coagulano tutti i sentimenti che quel punto rappresenta: in cima ci sono sogni, preparazione, fatica. La Piramide è uguale e non tornandoci troppo spesso la cosa diventa più forte. E poi ci sono gli uomini, i ragazzi nepalesi che lavorano con noi e ci sono affezionatissimi: un piccolo mondo formidabile.

Ha trovato cambiata la valle dell’Everest?
Quest’anno abbiamo fatto un viaggio bellissimo, io e Stefania. E’ stato come la prima volta che sono andato da quelle parti, negli anni settanta con Marco Preti. Poi ho sempre girato con grandi spedizioni, stavolta eravamo in due sia all’andata che al ritorno. A Lukla ho trovato il buon Simone Moro che in 7 minuti ci ha evitato 2 giorni di cammino che abbiamo poi potuto dedicare a visitare le valli sopra Namche in una situazione spettacolare con tutti i rododendri in fiore. Ma ci sono anche delle annotazioni tristi. Purtroppo i luoghi che portano alla Piramide sono degenerati, il primo è Lobuche dove hanno costruito dei lodge che sembrano caserme cinesi, dove c’è un inquinamento insopportabile, sterco che sporca l’acqua, stracci e pattumiera bruciati a cielo aperto. C’è il senso di quei villaggi di frontiera dove capita di tutto. Questo spiace, fa venire una rabbia terribile ed è il segno di un degrado che il Parco dell’Everest, uno dei più antichi parchi dell’Unesco, non dovrebbe vivere. Bisogna che ci sia un forte “rigurgito” di amore soprattutto da parte degli abitanti verso questo territorio che dev’essere più vissuto e meno sfruttato.

A cosa è dovuto secondo lei?
Le spedizioni commerciali hanno in sé il virus mortale del totale interesse verso i soldi e il disinteresse verso i valori veri dell’ambiente, delle persone, della cultura. In tutti i luoghi, fino al campo base, si percepisce che sta intaccando la struttura culturale delle popolazioni sherpa che preservavano il territorio con agricoltura, allevamento e la loro spiritualità. Sembra sia “intaccato” l’antico equilibrio. A Namche c’è un monastero bellissimo, ma c’è solo un monaco: è preoccupante, la spiritualità di questi luoghi è sempre stata molto forte ma a volte, ora, sembra rimasta solo nelle mura, nel passato, nell’architettura, ma non dalle persone.

Quali impressioni al campo base? I pareri sono contrastanti, c’è chi lo definisce uno zoo, e chi inizia ad apprezzare queste spedizioni commerciali.
Forse siamo alla fine di un ciclo negativo, che qui era di commercializzazione e competizione esasperata nei confronti della montagna, di sé stessi e degli altri che sono li. Gli sherpa sono competitivi, i turisti, tutti. Questo clima che aleggia e che si respira al base, spero stia finendo. Ho visto una collaborazione per i soccorsi: tutti si sono mossi perché sanno che il sentimento positivo paga. Speriamo sia il segno che il ciclo negativo sta finendo.

Una battuta sul progetto Share, che Evk2Cnr ha fatto nascere e che è cresciuto molto. Dove si vuole arrivare?
Forse arriveremo in cima all’Everest con il sensore. Forse ci sarà qualche ragazzo sherpa che lo farà da solo. Sarebbe uno splendido segnale. Share, comunque, sta diventando uno dei grandi progetti della comunità scientifica mondiale che si occupa di cambiamenti climatici in alta quota. Cresce dal punto di vista delle tecnologie, dei dati raccolti, e anche da quello territoriale: Italia, Nepal, Pakistan, Africa, Sudamerica. Ha riconoscimenti internazionali sempre più alti, frutto dell’ostinazione di Evk2cnr e della bravura di chi collabora con noi: Paolo Bonasoni e il suo gruppo, i francesi di Paolo Laj, Claudio Smiraglia e il settore glaciologia, insomma un gruppo importante di ricercatori che si consolida intorno alla leadership e al rigore scientifico di Bonasoni. Un rigore che sta dando la possibilità di essere riconosciuti dai grandi sistemi internazionali come leader di un settore che non è per nulla di nicchia se è vero che le montagne sono il 30 per cento delle terre emerse: è un ambiente importante per l’incidenza sui cambiamenti climatici, per il territorio e anche per i cambiamenti socioeconomici mondiali. Esserci, con la nostra esperienza, ed esser riconosciuti a livello internazionale ci riempie di orgoglio. Mi riempie di orgoglio. Sta a significare che aver iniziato ad arrampicare in Cornagera e Presolana, e aver trasformato la mia vita in questo, anche grazie a gente come Desio, Cerretelli e altri, mettendola al servizio della comunità scientifica, ha prodotto dei risultati positivi.

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