Storia dell'alpinismo

Annapurna 1988: sfida alla Sud

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"Parigi, sabato 26 marzo 1988: i sette uomini dell’Esprit d’equipe partirono per conquistare l’Annapurna per uno degli itinerari più difficili e classici della parete sud: la via Bonington. Benoìt, inseguito dai giornalisti, era eccitato: il suo sogno e le sue ambizioni si stavano realizzando". Nelle parole di Agostino Da Polenza, il racconto della spedizione che realizzò la prima ripetizione della vertiginosa via. Di cui vi regaliamo anche le immagini.

Il gruppo era composto dai veterani dei viaggi aerei, Benoìt Chamoux, Soro Dorotei e Joska Rakoncaj, e dai nuovi Yves Detry, guida alpina e ingegnere specializzato in orologeria, e Nicolas Canpredon, alpinista di grinta e agronomo di professione.

Con noi

Guarde le immagini inedite della spedizione

c’era nche Steve Boyer, alpinista e medico che avevamo conosciuto nel 1986 al K2; faceva parte della sfortunata spedizione americana che aveva perso due alpinisti per via di una valanga.

Ricordo che durante il trekking di avvicinamento aspettavamo le 8 per andare a letto. Sembra strano, ma uno degli effetti principali di una spedizione sulle nostre abitudini occidentali è proprio quello di far riacquisire i ritmi naturali legati al giorno e alla notte. Fu così che alle 6 del mattino ci ritrovavamo svegli per la colazione e alle 7 ci mettevamo in marcia.

Le ore trascorrevano camminando, sostando nei numerosi villaggi e chiacchierando con i compagni di viaggio e imparando a conoscerli. Con Benoìt mi trovavo spesso a fare valutazioni sulla composizione delle cordate, a chi dare la priorità nella salita e la direzione. Situazioni che, se non previste a priori, avrebbero potuto causare gravi problemi e danni.
 
Dopo alcuni giorni raggiungemmo l’Annapurna Base Camp, a quota 4100. Ma il campo base effettivo della spedizione era sulla morena di fronte, un poco più avanti, verso la parete della nostra montagna.
 
L’Annapurna costituisce un grandissimo anfiteatro le cui bastionate, per un’altezza che va dai 2500 ai 3500 metri, circondano da tre lati il campo base; quest’ultimo è situato su una specie di piattaforma, lunga un paio di chilometri e incuneata alla base delle pareti, al cui centro scorre il ghiacciaio. Verso sud l a valle affonda nel verde, sino a scontrarsi con le forme verticali della parete nord del Macchapuchare.

Nei giorni successivi il tempo si mantenne al bello. Questo ci consentì di impiantare nel migliore dei modi il nostro campo e contemporaneamente di procedere all’installazione del campo I, proprio ai piedi della nostra montagna. Gli alpinisti erano ormai proiettati verso l’alto e si faceva veramente fatica a trattenerli: i nuovi, soprattutto, volevano correre, fare, salire. Joska, invece, sapeva che la montagna era lì ad attenderlo da milioni di anni e che, giorno più, giorno meno, non sarebbe cambiato nulla; così, come sempre, se la prendeva un po’ comoda, con la scusa che lui non capiva bene la nostra lingua. Del resto era necessario far passare il giusto tempo per acclimatarsi e, prima del tentativo alla vetta, dovevano trascorrere ancora due settimane.
 
Molto rapidamente, montammo anche i campi I e II. Alla stanchezza si sovrapponeva l’entusiasmo per il buon lavoro che si stava svolgendo: Soro era quasi sempre davanti ad aprire la via, e con lui Benoìt e i ragazzi. Quando il tempo inevitabilmente cominciò a guastarsi, si stava avvicinando il giorno di rientrare in Europa: all’alba del 18 aprile dovetti salutare Benoìt e i pochi rimasti al campo base per tornare in Italia. Sbrigai il lavoro che non poteva aspettare e riuscii presto a ripartire per l’Annapurna, con Gian Pietro Verza e Hilde Diemberger, la figlia di Kurt, che desiderava visitare il santuario naturale dell’Annapurna per motivi di studio, ma anche perché voleva rivedere Benoìt, sua grande infatuazione sentimentale del momento.

Fu così che la nostra piccola carovana, ai primi di maggio, iniziò a risalire la valle verso il campo base. Il tempo era pessimo, e io pensavo ai mei compagni, con ogni probabilità incazzatissimi nelle loro tende e in attesa di un miglioramento. Benoìt, che avevo sentito per radio da Kathmandu, mi aveva fatto capire che il morale non era dei migliori, anche se il lavoro svolto in parete aveva permesso di arrivare al campo IV, a 7400 metri. Di là sarebbe partito l’assalto finale, sempre che il tempo lo consentisse.
 
Al campo base, la squadra aveva recuperato le forze durante il periodo di cattivo tempo. Ma ormai gli alpinisti erano esasperati dall’immobilità. Benoìt e i suoi compagni avevano deciso di giocare d’anticipo confidando che il bel tempo non avrebbe tardato. Sarebbero partiti al primo accenno di cambiamento, o perlomeno quando avrebbero intuito che questo stava per avere inizio.

Nel pomeriggio dell’8 maggio il tempo era ancora al brutto, anche se forse si intravvedevano alcune schiarite: ma la speranza è spesso più forte della realtà stessa. D’altra parte l’obiettivo era quello di arrivare sulla cima.
 
Già nel 1950, in occasione della prima salita della montagna, Maurice Herzog, incalzato dall’arrivo del monsone, aveva adottato la stessa strategia, cioè quella di "anticipare il bel tempo". Una curiosa ripetizione della storia, determinata allora dall’assunzione di un grave rischio, in favore dell’opportunità unica di essere il primo uomo a salire in vetta a una montagna di 8000 metri. Così, nonostante il ciclo fosse ancora cupo e il vento facesse correre veli di nebbia tutt’attorno, l’equipe si trovò a ripercorrere nuovamente il dedalo di crepacci del ghiacciaio e a salire in punta di ramponi i ripidi canaloni di accesso alla parete sud, fino al campo II.
 
All’alba del 9 maggio il gruppo riprese la marcia, transitando con il fiato sospeso sotto il grande seracco pensile, una torre dell’altezza di dieci piani, incredibilmente in equilibrio; poi, oltre i seracchi intermedi, raggiunse il campo III e successivamente il difficile muro verticale di roccia. Le difficoltà erano elevate, anche per il ghiaccio che incrostava la parete e per i capricci del tempo. Vennero sistemate le corde fisse. Quando la notte li colse a 7400 metri, quasi senza che se ne rendessero conto, Soro, Steve e Joska erano intenti a un lavoro durissimo; in fretta e furia furono costretti ad allestire un bivacco che permettesse loro di trascorrere la notte alla meno peggio prima dell’assalto finale. Nel frattempo, partiti il giorno successivo, Benoìt, Yves e Nicolas raggiunsero in giornata il campo III, 450 metri più in basso dei loro compagni, con i quali erano collegati via radio.

Tutti attesero l’alba per partire verso la vetta, rispettando la precisa scelta di permettere a tutti di raggiungere contemporaneamente la cima. La situazione rischiò di diventare drammatica quando, nonostante la temperatura rigidissima, cominciò a nevicare copiosamente. La polvere bianca scorreva nei canaloni, precipitava da ogni dove, a colmare ogni anfratto, a seppellire le tende e i ripari.
In quei momenti ogni alpinista richiama dalla sua memoria tutte le situazioni drammatiche in cui si è andato a cacciare in precedenza. Questo background individuale è uno strumento indispensabile per sopravvivere. Per quanto possa apparire crudele, nel cervello di uno scalatore questa operazione mnemonica equivale all’apertura del file "emergenze". Un file in cui sono racchiuse tutte le informazioni per elaborare le strategie utili a cavarsela. Certo, per Nicolas questa dev’essere stata un’operazione particolarmente tormentata.
 
Ricordare l’errore di quell’invernale sulle Alpi, quando la neve lo aveva bloccato con i suoi compagni, che gli era costata tutte le prime falangi delle mani… Ma poi aveva continuato a salire montagne, a lottare in altre tormente, cercando di non commettere altri errori, ed ora era qui. Tutto il gruppo sapeva di essere a una quota e in una situazione dove l’idea stessa di continuare a salire richiede una grande volontà per essere accettata, mentre la voglia di scendere, di abbandonare l’inferno, è irresistibile.
 
Durante la notte uscivo dal lodge, guardavo il cielo, odoravo il vento, a tratti apparivano alcune stelle, le nubi si spostavano veloci, forse si stava rasserenando. Anila, la monaca tibetana che era con noi, aveva fatto il miracolo? Gli dèi della montagna si erano forse placati grazie ai suoi rituali? Sapevo che lassù, sulla montagna, qualcosa di importante stava succedendo e avevo voglia che arrivasse presto l’alba per salire al campo base. Là, nel dormiveglia, i miei compagni tenevano duro, speravano che la neve cessasse di cadere. Qualche stella, il cielo buio oltre la nuvolaglia; poi una leggera brezza, e le stelle continuarono a aumentare, fino a riempire il cielo. Ciò che sinora la squadra degli alpinisti aveva sopportato stava diventando un formidabile collante psicologico, un’irresistibile forza in grado di galvanizzare il gruppo. Gli scalatori avevano voglia di vetta e le stelle in cielo erano ora una grande promessa.
 
Era ancora notte quando Benoìt e i suoi compagni partirono per raggiungere Soro, Joska e Steve. Questi ultimi faticarono un po’ di più a prendere fiato e a muoversi dalla scomoda posizione nella quale erano stati costretti durante il bivacco. Si incontrarono tutti al campo-bivacco; mancava ancora un’ora all’alba e sorseggiarono del tè. Soro voleva quella vetta e partì davanti a tutti. Erano le 9 quando finalmente si fermò sulla cima dell’Annapurna.
 
Era una giornata splendida, con il sole che inondava tutte le montagne circostanti. Al campo base riuscii a parlare per radio con lui. Mi ritrovai, commosso, abbracciato a Hilde e all’ufficiale di collegamento, mentre Gian Pietro trafficava con la radio per poter inviare la notizia in "tempo reale".
 
Il resto del gruppo raggiunse Soro di lì a pochi minuti. Mancava ancora Yves, ma l’euforia e una grande felicità stavano travolgendo tutti. I miei amici avevano impiegato 10 ore per raggiungere la vetta. Per ammirare lo straordinario panorama che si parava di fronte ai loro occhi a 360 gradi, con il Dhaulagiri, il Manaslu, le centinaia di altre cime; le profondissime valli, avevano a disposizione solo pochi minuti. Sapevano di dover scendere e così, poco sotto, quando incontrarono Yves che, particolarmente affaticato, procedeva lentamente, Benoìt lo convinse a rientrare con loro.
 
A quel punto, anche per la saggia rinuncia di Yves, la prima spedizione dell’Esprit d’equipe poteva ritornare felicemente al campo base.

 Agostino Da Polenza

Immagini Esprit d’Equipe. Testo tratto e riadattato da "Everest-K2 Montagne di Sogno" di Agostino Da Polenza, Ferrari editrice.

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