Storia dell'alpinismo

Kurt Diemberger e la “meringa” del Gran Zebrù, un’impresa ai limiti della follia

L’anno è il 1956. Il protagonista una leggenda vivente dell’alpinismo, Kurt Diemberger. Il campo di battaglia è la parete nord del Gran Zebrù, il “Re”, come lo chiama la gente della Valfurva. La sfida è una via di salita diretta, che per essere tale deve vincere la cosiddetta “meringa”, una cornice sporgente, quasi sospesa sopra la parete nord. Tanto perfetta da sembrare scolpita da un maestro pasticcere.

Il primo tentativo: dentro la meringa

Nel mese di settembre, dopo un intenso allenamento nel gruppo del Monte Bianco prima, e in Dolomiti poi, Kurt Diemberger e Albert Morocutti sono pronti all’attacco. Due interrogativi però creano inquetudine. Nessuno è mai stato nel ghiaccio vivo dell’immensa meringa. Non si ha una minima idea di cosa possa essere quel tiro di corda che occorre per superarla verticalmente. Inoltre, la via di salita si sviluppa interamente sotto di essa, quasi in linea retta. Il ghiaccio terrà? O con il calore del sole le scariche cominceranno a spazzare la parete? E se la cornice decidesse ad un certo momento di crollare interamente?

Domande senza risposta. Si può soltanto attaccare di buon ora. E alle sette del mattino i due sono alla crepaccia terminale. Un attimo di sosta e poi l’inizio della progressione sulla parete, con una sorpresa. La neve è perfetta, ruvida, compatta e solcata da piccole scanalature che sembrano formare una scala naturale verso la vetta. Per un momento tutte le preoccupazioni sono dimenticate, e ci si gode una salita stupenda in un paesaggio ancora più bello. Ma dopo qualche ora, dal margine superiore del primo canalone, la meringa appare nella sua strapiombante e lucida bellezza. Se ne sta lassù, 500 metri sopra gli alpinisti, come una sorta di baldacchino che sembra sospeso nell’aria.

La parte strapiombante è costituita da una serie di strati di neve pressata che, sotto il peso crescente, si è ripiegata su se stessa quasi accartocciandosi. E un passo dopo l’altro si fa via via sempre più vicina. La neve sotto alle punte dei ramponi diviene sempre minore fino a che i due si trovano su ghiaccio vivo. Un ghiaccio che non permette nemmeno di piantare chiodi perchè si frantuma sotto ai colpi del martello.

E’ ora di prendere la prima decisione: di lì non si passa e la alternative sono due. Traversando a sinistra la via si fa più facile, ma così facendo si finirebbe per uscire dalla parete e trovarsi sulla cresta ovest. Niente direttissima dunque. La seconda ipotesi è quella di traversare invece verso destra, superando un altro ripidissimo scivolo ghiacciato per portarsi all’interno della meringa.

La decisione è presa dopo un attimo di pausa. Si va a destra. Alla vetta non mancano che un centinaio di metri di dislivello ma sono metri nei quali può accadere di tutto. Saranno di ghiaccio vivo? Neve pressata dal vento? Si potranno piantare chiodi che tengano? Non vi possono essere risposte al momento. Si può soltanto proseguire. Nel suo libro “Passi verso l’ignoto”, Diemberger ricorda quei momenti: “Sono come un ragno appeso ad uno specchio di vetro, altissimo sopra un paesaggio luminoso. Di una verticalità mozzafiato“.

La progressione è un gioco folle, ai limiti del possibile. Ogni centimetro richiede tempo e uno sforzo pazzesco. Le tacche non sono altro che scalfiture nel ghiaccio e l’equilibrio è garantito dalle punte dei ramponi e dalle dita che in tutti i modi tentano di creare aderenza su una superficie lucida e gelata. Bisogna cercare un punto di passaggio. Una qualsiasi formazione doi ghiaccio che permetta di penetrare all’interno della meringa e sperare di avere una possibilità di vincerla. E ad un certo momento, davanti a Kurt che apre la cordata, appare una rientranza, un angolo nascosto: è quello il primo punto chiave della salita. La porta di accesso per la grande formazione di ghiaccio. Pochi metri e i due sono all’interno. E le sensazioni sono di quelle forti. Uno dei luoghi forse più inaccessibili della terra era appena stato violato. 

Ma da lì non si ha nessuna speranza di passare: la neve è inconsistente e i chiodi non tengono. E la giornata sta rapidamente volgendo al termine. È ora di tornare. Così, con la delusione nel cuore, i due si avviano a ritroso, metro per metro, tagliando verso la cresta di Solda.

Ma ad un tratto un particolare colpisce Kurt. Proprio sotto al tetto della meringa, spostato rispetto al punto raggiunto, vi è forse l’unico punto debole. Tre sporgenze strapiombanti che però sembrano di ghiaccio buono. Il segreto sembra quello. Salire fin sotto al tetto e traversare su di una cengia infida per cercare lo spazio di passaggio e superare lo strapiombo. È la svolta, la fiamma che accende il lume della voglia di conquista. Ma la partita è rimandata a data da destinarsi. Le vacanze di Albert sono terminate e Kurt si ritrova solo, con in mano la chiave per accedere alla “corona del Re”.

Il secondo tentativo: due nuovi compagni

I giorni passano, senza che nessuno dia la disponibilità per tentare qualcosa che ai più sembra una follia. Una soluzione ci sarebbe. Andare da solo, con un’assicurazione dall’alto, dalla vetta. Ma l’etica alpinistica si oppone a una cosa simile: la corda deve necessariamente arrivare dal basso.

Quando però, le speranze sono ormai ridotte al lumicino, inaspettata, ecco una botta di fortuna. La ricerca di un compagno di cordata termina grazie a due ragazzi austriaci saliti per tentare la cresta di Solda bivaccando in tenda. In un attimo l’accordo: la mattina seguente i tre si sarebbero ritrovati sulla cresta, pronti a traversare per portarsi al di sotto della meringa.

Ma si sa, in quegli anni le comunicazioni a distanza in montagna erano impossibili, ed è così che, fraintendendo gli accordi, i due attaccano la parete nord, integralmente. Inutile descrivere lo sconcerto di Kurt, resosi conto di quanto stava accadendo dal rifugio Schaubach, a due ore di distanza dalla loro tenda. Con una corsa frenetica in poco tempo è sulla vetta e il contatto è stabilito poco dopo dalla cresta di Solda.

Herbert e Hannes, gli alpinisti austriaci, avevano frainteso Kurt e contavano, una volta salita fin li la parete, di traversare e di aspettarlo al luogo dell’appuntamento. Ma la situazione era nel frattempo cambiata. Rimasti con troppo pochi chiodi da ghiaccio, e con un martello inservibile, i due erano praticamente bloccati alla sosta. Kurt avrebbe dovuto traversare da solo fino alla meringa, senza assicurazione, e con settecento metri di scivolo di ghiaccio sotto ai piedi. Un’impresa eccezionale. Ma, passo dopo passo, con il cuore in gola e la tensione alle stelle, anche questa è portata a termine. Il desiderio della meringa è più forte di tutto.

Mezz’ora di manovre di corda è il tempo richiesto perchè tutti e tre siano ancorati ad un punto saldo. E finalmente Kurt può passare in testa alla cordata manovrando sotto allo strapiombo per tentare di superarlo. Ad Herbert e Hannes toccheranno ore di attesa, interminabili, al freddo e a 3800 metri di quota. Ma questo già lo sapevano.

Ora la salita ha un senso per tutti, per gli austriaci, che la compiono integralmente in una giornata, e per Kurt, che, seppure effettuandola in due salite distinte, è colui che ne ha svelato il mistero.

La fase finale della conquista

La progressione sulla “pancia” strapiombante della meringa è possibile grazie all’ausilio delle staffe, ma la situazione non è certo tranquilla. Kurt è appeso con un piede sul vuoto, con la faccia schiacciata al ghiaccio che lo sovrasta. Dopo interminabili momenti, che passano come ore, il primo rigonfiamento è vinto. Un attimo solo di sosta per riprendere fiato e una certezza: da lì indietro non si torna, si può soltanto proseguire.

Ma la seconda “pancia” è alquanto diversa dalla prima: è composta di strati di neve compattata dal vento, è la parte più recente della meringa e qui i chiodi faticano non poco a tenere. Alla certezza di avere realizzato un appiglio valido segue la delusione e lo spavento quando il chiodo cede costringendo Kurt a manovre da funambolo per mantenere l’equilibrio.

Talora inserisco fra gli strati di neve il manico della piccozza. Con un movimento circolare scavo un buco e vi infilo il braccio fino al gomito. Stringo il pugno, carico, mi tiro su. E ripeto l’operazione dall’altra parte. Una fatica immensa” sono le parole di Diemberger, tratte dal suo libro “Passi verso l’ignoto”.

Non è più arrampicare. La sfida è un arrangiarsi alla belle e meglio per raggiungere la cima. È uno strisciare verticalmente con il corpo schiacciato alla parete. Rimane un solo chiodo da ghiaccio. Ma non si può piantare, serve per la progressione.

All’improvviso una voce dal basso: è Hannes che chiede se va tutto bene. E le sue parole tradiscono l’ansia. Al freddo e su di un piccolo terrazzo in una posizione scomoda, l’austriaco sta garantendo la sicurezza ormai da ore a Kurt. Le sue condizioni non devono essere certo delle migliori.

Poi, finalmente, dopo l’ultimo sforzo la gioia più grande: la corona del Re. Kurt sbuca sulla cima inondata dal sole e inizia le manovre per far salire anche gli altri due. Quando finalmente sono su tutti e tre, può scoppiare l’allegria e la consapevolezza di aver compiuto un’impresa ai limiti delle possibilità umane.

La fine della meringa

La notte tra il 3 e il 4 giugno del 2001 segnò la fine della meringa gigante. Mentre imperversava un violento temporale, gli abitanti di Solda udirono un boato fragoroso. Il mattino seguente la scoperta: le migliaia e migliaia di tonnellate di ghiaccio che la componevano erano precipitate a valle, giù per i 700 metri della parete nord e con essa la splendida impresa di Diemberger e dei due austriaci.

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2 Commenti

  1. Anni dopo Grassi e Comino presero a salire grandi seracchi. Salite di incredibile audacia, purtroppo terminate in modo tragico

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