OutdoorSoul Silk

Soul Silk, un lungo viaggio a pedali dall’Italia alla Cina. Quinta puntata: da Tbilisi alla vetta del Little Chimgan

Prosegue l’avventura di Yanez Borella, maestro di snowboard e ultrarunner, e Giacomo Meneghello, fotografo di montagna, impegnati nel progetto “Soul Silk”: ripercorrere in e-bike la Via della Seta, dall’Italia alla Cina, salendo una cima per ognuno degli Stati attraversati. Un viaggio di circa 100 giorni, oltre 10.000 km di strada e un numero incalcolabile di metri di dislivello. Il tutto trainando due carretti muniti di pannelli fotovoltaici, per ricaricare le batterie delle bici, e contenenti tutto ciò che può servire per affrontare in autosufficienza la lunga e impegnativa impresa.

La spedizione “Soul Silk”, di cui Montagna.TV è media partner, è nata dalla voglia di dimostrare che inseguire i propri sogni è possibile, basta avere il coraggio di uscire dalla propria zona di comfort e mettersi in gioco. Dimostrando che è ancora possibile vivere viaggi e avventure vere, non solo “surrogati” preparati per noi.

La partenza dall’Italia è avvenuta il 19 aprile. I due viaggiatori hanno ora percorso il tratto da Tbilisi, capitale della Georgia, alla vetta del Little Chimgan, in Uzbekistan. Ecco il loro racconto:

La mappa di “Soul Silk”, un lungo viaggio a pedali dall’Italia alla Cina

Abbandonata la caotica Tbilisi ci dirigiamo verso l’Azerbaigian, senza avere idea ben chiara di cosa attenderci da questo Paese sconosciuto. L’accoglienza in dogana si mostra a dir poco folcloristica, al punto da sentirci quasi degli eroi nazionali: gente che ci saluta da ogni dove, dalle case, dai cortili, dalle auto (le mitiche Lada di sovietica memoria), tè turco offerto nei bar, assembramento di curiosi a ogni sosta. Che dire, un popolo veramente amichevole e socievole!

Ci dirigiamo verso est, attraversando quasi tutta la nazione tra ampie pianure e zone aride fino al porto di Alat, 70 km a sud della capitale Baku. Qui ci attende una famigerata nave cargo, che ci consentirà di oltrepassare il Mar Caspio e arrivare a Kuryk, in Kazakistan. “Famigerata” perché è citata in ogni blog come fosse una nave fantasma, e in un certo senso è proprio così. Unico modo per avere informazioni sugli orari di partenza è andare al porto di persona. Ci rechiamo lì alle 10 di mattina del 30 maggio e ci viene consigliato di tornare all’una per scoprire se ci sarà o meno una nave nei giorni successivi. Torniamo alle 13. Pare che il 31 maggio o il 1° giugno ne partirà una, ma è meglio chiamare la mattina successiva, alle 10. Nell’attesa andiamo a Baku, una città moderna e affascinante, ricca di giardini, palazzi storici frammisti a nuovi edifici spettacolari, soprattutto quando si illuminano di sera.

Arriva il mattino e, con non poche difficoltà di lingua e di rete, riusciamo a chiamare il porto. Per quanto ci riesce di capire, la nave partirà alle 19. Lasciamo in fretta Baku e ci spostiamo nell’entroterra, tra pozzi petroliferi e paesini d’altri tempi sperduti tra aride colline semidesertiche per raggiungere una “vetta” particolare: lo Yanar Dağ, la montagna che brucia. Una piccola altura di 116 metri che si sviluppa su un sedimento di gas naturale, resa famosa dal fuoco che arde incessantemente lungo un fianco della collina dagli anni Cinquanta. Le fiamme che fuoriescono da una spaccatura nella roccia possono raggiungere i 3 metri di altezza e di sera si dice che siano uno spettacolo. Ma a noi tocca correre al porto!

Arriviamo in volata ma la “famigerata” non si vede. Le ore di attesa si fanno estenuanti, siamo seduti a terra assieme a un pugno di altri ciclisti e motociclisti, gli unici pazzi che a quanto pare osino prendere questo mezzo di trasporto fantasma. All’una di notte finalmente si sale a bordo! Inizia la lunga procedura dei controlli doganali tra i fumi dei camion sul cargo. Due ore più tardi entriamo in cabina: 31 gradi, umidità indefinita e nessuna finestra. Praticamente solo lo sfinimento ci consente di dormire. Le ore di viaggio si fanno interminabili: anche in sala, tra i camionisti kazaki che guardano la tv, ci sono oltre 30 gradi, e fuori un sole cocente. La seconda notte decidiamo di dormire direttamente sul ponte della nave e, al nostro risveglio, ecco un miraggio: terra! Il sollievo dura poco, perché ci aspettano altre ore di controlli doganali.

Ma siamo finalmente in Kazakistan, pronti per affrontare chilometri e chilometri di deserto. Le prime ore ci appaiono suggestive, siamo nel nulla in compagnia degli altri ciclisti conosciuti in nave. Fa caldo, ma è sopportabile. Al primo paese restiamo soli, e mancano ancora 50 km alla città. È pomeriggio e il caldo inizia a diventare atroce, forse perché non ci siamo abituati. Arriviamo arsi ad Aktau, gradevole cittadina kazaka sul Mar Caspio. Pit stop e via, altri 500 chilometri di deserto. Ogni 50-100 km si trova fortunatamente qualche punto di ristoro, generalmente case in cui servono da bere e da mangiare, spesso prive di insegne. Come se il caldo non bastasse, ci si mette anche il vento. Pedali pedali e sembra di stare sempre nello stesso punto, colpa anche del paesaggio monotono. Arriviamo cosi a Beyneu, ultimo paese prima della frontiera con l’Uzbekistan, che dista 100 chilometri. Un ultimo tratto che sembra infinito: prima le ruote dei carretti che affondano nella sabbia, poi buche a non finire. Non ci crederete, ma su strade simili circolano anche camion e auto, spesso cariche oltre il limite.

La situazione non cambia in Uzbekistan, dove ci accolgono caldo, umidità e mosche. Non si respira nemmeno la sera, quando ci accampiamo tra le zanzare della steppa e la temperatura scende sotto i 30 gradi. Per fortuna anche qui veniamo accolti cordialmente, nonostante le difficoltà di comunicazione che, sommate all’assenza di rete, ci rendono complesso anche trovare un giaciglio. Due località in particolare ci lasciano a bocca aperta: Bukhara e Samarcanda. Città storiche stupende dal punto di vista architettonico.

Da Samarcanda ci dirigiamo a nordest e, giunti al paese di Olmaliq, lasciamo i carretti e raggiungiamo in bici il villaggio di Chimgan a circa 1.500 m di quota, diretti alle Chimgan mountains, la cui vetta più alta raggiunge i 3.309 m (Greater Chimgan). Arrivando in paese nel pomeriggio, non ci resta che puntare alla vetta minore, il Maly Chimgan o Little Chimgan (2.096 m), così da goderci il tramonto in cima. Invece di prendere la via più semplice che sale da nord, puntiamo alla spalla meridionale. La prima parte non sembra difficile, sebbene priva di sentieri o tracce, ma ben presto ci accorgiamo di dover procedere tra erbe pungenti e terreni scivolosi. A fatica raggiungiamo il crinale e finalmente il panorama si apre. La cresta non sembra impossibile, ma alcuni passaggi esposti di primo grado ci costringono a fare attenzione e arriviamo in cima giusto in tempo per il tramonto. Senza indugiare troppo, prendiamo la via del ritorno. L’aria di montagna ci mancava proprio, e per fortuna ora ci attende il Kirghizistan, dove le montagne regnano sovrane. Non sembra vero, ma tra una settimana saremo al campo base del Pik Lenin (7.134 m).

 

Leggi le precedenti puntate:

  1. Dalla Marmolada alla Croazia
  2. Dalla Croazia a Istanbul
  3. Da Istanbul alla vetta dell’Erciyes
  4. Da Kayseri a Tbilisi

 

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close