Alpinismo

Sugli Ottomila con esperienza e fortuna, intervista a Krzysztof Wielicki

Per sopravvivere agli ottomila d’inverno ci vogliono esperienza e fortuna”. La fine di Tom Ballard e di Daniele Nardi sul Nanga Parbat è stata “un peccato, e un grande dolore”.Lo stesso vale per quella di David Lama, Hansjörg Auer e Jess Roskelley sullo Howse Peak, in Canada. 

Per Tomek Mackiewicz, che sul Nanga Parbat aveva perso la vita nel gennaio del 2018, le cose sono più articolate. “Credo che sia stato un errore tentare la vetta con un’acclimatazione insufficiente. Ma per Tomek il Nanga era il Graal”. 

In bocca a qualunque altro alpinista, affermazioni come queste potrebbero sembrare esagerate o saccenti. Se a pronunciarle è Krzysztof Wielicki, però, è bene ascoltarle con attenzione. 

Un po’ perché il grande alpinista polacco dice queste cose con partecipazione e dolcezza, senza l’aria di chi sta tranciando un giudizio. E soprattutto perché Wielicki, 69 anni, è uno dei miti dell’alpinismo himalayano moderno. 

La sua lunga carriera di alpinista, iniziata a diciassette anni con le prime arrampicate sulle falesie polacche, lo ha portato nel 1980 a compiere la prima invernale dell’Everest e nel 1986 quella del Kangchenjunga. Sono entrate nella storia anche le vie nuove tracciate in solitaria da Krzysztof Wielicki sulla parete Est del Dhaulagiri (1990) e sulla Sud dello Shisha Pangma (1993), e una incredibile galoppata sul Broad Peak (1984, 22 ore dal campo base alla vetta e al ritorno).
Nel 1996, salendo in solitaria il Nanga Parbat, il polacco è diventato il quinto alpinista a completare la collezione degli ottomila. Nel 2002 e nel 2018 ha diretto due spedizioni che tentavano d’inverno il K2. Molti, nella sua straordinaria carriera, gli incontri ravvicinati con la morte. Nell’invernale al Kangch, dopo l’arrivo in vetta di Wielicki e di Jerzy Kukuczka, Andrzej Czok ha perso la vita per un edema polmonare. Pochi mesi dopo, scendendo dal Makalu, lo svizzero Marcel Rüedi si è spento per sfinimento dopo aver raggiunto la cima insieme a Krzysztof.  

Queste e altre storie di fatica, di gioia e di morte scorrono nelle pagine de La mia scelta (Hoepli, 240 pagine, 24,90 euro), il libro curato da Piotr Drożdż e tradotto da Luca Calvi, che Wielicki ha presentato al Film Festival di Trento. 

Parlando con Krzysztof Wielicki, si ha l’impressione che la sua serenità abbia avuto un ruolo importante nel farlo vincere tante volte sugli ottomila, e poi tornare alla vita senza danni. 

La storia di Wielicki, di Kukuczka, di Vojtek Kurtyka e dei loro amici è quella di un gruppo di fuoriclasse. Ma è anche la storia di un periodo irripetibile, in bilico tra il cupo socialismo reale polacco e la possibilità di raggiungere le grandi cime della Terra. Con il socialismo, la gente in Polonia viveva male, i negozi erano vuoti, ma noi alpinisti siamo riusciti a fare grandi cose. Per noi è stato il momento giusto” spiega l’autore de La mia scelta. “Poi sono arrivati la libertà e la Coca-cola, ma tutti i polacchi, alpinisti compresi, hanno dovuto lavorare”. Quarant’anni fa Wielicki, ingegnere, lavorava alla FIAT polacca (per questo parla bene l’italiano), e poteva avere tutte le ferie non pagate che voleva. Ora è un imprenditore di successo, ma negli ultimi decenni affiancare alpinismo e lavoro non è sempre stato facile. 

All’inevitabile domanda sulla sua spedizione più pericolosa, Krzysztof non risponde pensando all’inverno. “Il Nanga Parbat! Aveva fatto brutto tempo, sulla montagna non c’era più nessuno, ho salito la via Kinshofer nella solitudine assoluta. Cercavo una scusa per tornare ma il tempo era perfetto, e ho continuato fino in vetta”.  

E’ stata una straordinaria avventura di sopravvivenza anche la prima invernale dell’Everest, un’intuizione di Andrzej Zawada. Nessuno pensava che fosse possibile, avevamo un abbigliamento e un materiale ridicoli. Per le giacche a vento abbiamo comprato dei rotoli di nylon e poi li abbiamo fatti tagliare e saldare” sorride Wielicki. Però eravamo forti, e volevamo fare l’impresa. Quando io e Leszek Cichy siamo arrivati in cima, per la Polonia è stato un grande momento di orgoglio nazionale. Ne sono orgoglioso”.

Fa pensare alle tragedie recenti la morte di Czok sul Kangchenjunga nel 1986. “Ci ho pensato molte volte in questi anni” sorride con tristezza Wielicki. Io e Kukuczka eravamo stati da poco sul Lhotse, eravamo più acclimatati degli altri. Andrzej tossiva, era un po’ più lento degli altri, non pensavamo fosse grave. Invece è crollato ed è morto di colpo. Terribile”. 

Ma alla domanda se esiste una lezione, una regola per evitare le tragedie, Krzysztof scuote ancora una volta il capo. Ci vuole esperienza, ci vuole fortuna, bisogna saper leggere la montagna e sé stessi. Ma poi si continua a morire, perché la passione per la montagna è troppo forte. In cinquant’anni, ho conosciuto soltanto un alpinista che abbia deciso di smettere perché non voleva più rischiare”.   

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