Sci alpinismo

Antartide in barca e con gli sci da alpinismo

Manuel Lugli e Matteo Guadagnini, sono i due protagonisti di una vera e propria avventura che li ha portati  in barca attraverso i freddi ghiacci dell’Antartide. Matteo, avvocato torinese appassionato di viaggi e scialpinismo, e Manuel, con una laurea in medicina in tasca è un vero e proprio avventuriero. “Non ho mai praticato, mentre stavo finendo l’università ho capito che quella non sarebbe stata la mia strada: non ero fatto per rimanere chiuso in una corsia d’ospedale” ci racconta a ISPO 2019 dove abbiamo incontrato i due protagonisti di questo viaggio nel continente bianco.

Partiti il 27 dicembre i due, già compagni in una lunga traversata della Groenlandia, si sono mossi a bordo della “Pelagic Australis”, yatch che ha accompagnato decine di spedizioni alpinistiche, documentaristiche e scientifiche, lungo la costa antartica. Per circa un mese hanno percorso il grande continente effettuando vari ancoraggi nei luoghi più spettacolari o nei pressi di alcune interessanti vette da salire e scendere con gli sci.

 

Manuel e Matteo, ci raccontereste intanto qual è stata la natura che vi siete trovati a vivere?

Abbiamo iniziato a conoscerla prima ancora di arrivare in Antartide. Infatti, già durante la lunga traversata da Puerto Williams al continente attraverso lo stretto di Drake, abbiamo avuto modo di misurarci con l’oceano. Un luogo dove si respira la forza della natura, una natura ancora integra che poi diventa spettacolare arrivando sulla costa. Le dimensioni sono impressionanti e anche i numeri, la quantità di montagne che ti trovi davanti, ovunque ti giri hai ghiacciai di dimensioni pazzesche che scendono al mare e poi quel grande plateau che percorre tutta la penisola antartica.

Sono stato molte volte in Himalaya, ma onestamente un impatto come quello che ho avuto in Antartide non credo di averlo mai vissuto. Continuamente abbiamo avuto l’occasione di incontrare pinguini, foche, albatros, balene. Una fauna ricchissima, avremo incontrato qualcosa come 140 balene.

Pensate che si potrebbe definire l’Antartide un luogo dove la natura è ancora libera?

Assolutamente si. Se dovesse rimanere così, e spero lo rimanga, si.

Anche lì stanno però arrivando fenomeni turistici “di massa”, come le crociere antartiche sulle rompighiaccio. Avete avuto occasione di incontrarne qualcuna nei giorni di navigazione? Che impressione vi ha lasciato?

L’impressione è un po’ straniante. Per fortuna però con le navi non si fermano vicino alla costa, ma al largo poi toccano terra con gommoni carichi di turisti che vanno a visitare qualche punto interessante per la bellezza paesaggistica o per la presenza di colonie di pinguini. Fanno visite molto brevi. Da dire che ci sono cose a volte grottesche come i gruppi che si muovo tra gli iceberg con il Sup.

Un certo senso di fastidio ce l’ha lasciato perché è stato come se anche quel minimo di rispetto, formale, richiesto dal luogo in cui ci si trova fosse andato perduto. Va bene attraccare con il gommone, l’abbiamo fatto anche noi, ma cercando di ricordarsi dove ci si trova: è come Brumotti che cercava di andare in bici sull’Everest. Teniamo un profilo rispettoso nei confronti dell’ambiente.

Partiamo però dall’inizio. Siete arrivati in Antartide come si faceva un tempo, in barca attraverso lo stretto di Drake, un luogo che da racconti leggendari soprattutto per la complessità della navigazione… confermate o smentite?

Lo stretto di Drake è stato parte integrante dell’avventura. Ci piaceva l’idea di attraversare questi mari che per fanno parte della leggenda, dei volumi di Francisco Coloane, di Luis Sepùlveda e di molti altri autori patagonici.

Durante l’andata abbiamo avuto un giorno e mezzo di mare abbastanza vivace mentre al ritorno due giorni con vento fino a quaranta nodi e onde di tre metri e mezzo. Condizioni che per due marinai di acqua dolce sono state molto particolari da gestire (ridono). Nonostante questo però è stata una gran bella esperienza, con tanto di turni di guardia diurni e notturni per avvistare gli iceberg.

Il vostro primo approccio con l’Antartide l’avete avuto insieme a un compagno particolare, a guidarvi c’era infatti Steven Venables…

Si, andare con lui ha reso questa un’esperienza ancora più ricca. La conoscenza che ha Steven di quelle montagne non ce l’ha nessun altro. Una persona molto intelligente e tranquilla che, nonostante i numerosi viaggi compiuti in territorio antartico, sta continuando a scoprire nuove montagne. Per esempio il Mount Parry che abbiamo salito, lui non era mai riuscito a farlo prima. È un continente che puoi conoscere bene ma dove esiste ancora tantissimo da esplorare.

La punta più bella che avete raggiunto e sciato?

Sicuramente il già citato Mount Parry. Una cima di 2520 metri che ci ha impegnati per tre giorni con due notti di campo che sono stati la ciliegina sulla torta del viaggio.

Come esperienza invece devo dire che la prima volta non si dimentica mai. Siamo arrivati a terra con il gommone, quindi ci siamo arrampicati su uno scoglio per poi andare sulla neve. Mentre montavamo le pelli al fianco avevamo una foca e due pinguini che ci guardavano. Animali molto simpatici i pinguini.

Ci raccontate ancora qualcosa sulla logistica di una spedizione come questa?

Diciamo che noi direttamente, come scialpinisti, abbiamo vissuto questa grande organizzazione solo di riflesso. Nel senso che quando siamo arrivati la barca era già stata preparata e attrezzata. Va però detto che il mestiere di chi organizza questi viaggi è molto complicato. La loro base è a Stanley, nelle isole Falkland dove preparano la barca e fanno approvvigionamenti prima di raggiungere, con una settimana di navigazione, Port Williams da cui partono i tour verso l’Antartide.

Si viaggia a bordo di una barca da venti metri di lunghezza, automatizzata e molto sicura. Cosa che rende molto confortevole il viaggio, soprattutto al rientro dalle salite giornaliere e hai la possibilità di mangiare al caldo e riposare in cuccetta. Rispetto a una spedizione himalayana è molto più comodo.

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