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Nel nostro DNA si nasconde un “gene del maratoneta”

Kilian Jornet, Marco Olmo, Dario Viale, Alexis Sevennec, Marco Degasperi, Anton Kupricka, i fratelli Dematteis. Atleti di fronte alla cui resistenza nella corsa in montagna avremo pensato chissà quante volte “Ma come fanno?”.

Anche la scienza si è chiesta se runner (di montagna e non) si nasce o si diventa e la risposta, che non piacerà ai più pigri, è che tutti nasciamo potenzialmente corridori. Conformazione fisica e allenamento fanno poi la differenza.

Nel DNA di ognuno di noi c’è infatti quello che è stato soprannominato il “gene del maratoneta”. Uno studio dell’Università della California di San Diego, pubblicato a settembre 2018 sulla Royal Academy e recentemente apparso sulla rivista Scientific American, dimostra che alla base di una maggiore resistenza nella corsa ci possa essere una mutazione genetica a carico del gene CMAH (CMP-Neu5Ac Hydroxylase).

Prima che i nostri antenati iniziassero a correre “su due zampe” circa 2 milioni di anni fa, diventando degli ottimi predatori, il CMAH era attivo e codificava per una proteina con attività enzimatica, senza entrare nel dettaglio, coinvolta nelle risposte infiammatorie. Secondo studi genetici, tra 2 e i 3 milioni di anni fa il gene avrebbe subito una mutazione che lo avrebbe totalmente inattivato.

I risultati ottenuti dalla recente ricerca sui topi condotta dal Ajit Varki, biologo molecolare e cellulare dell’Università della California, associano la mancata produzione dell’enzima ad un aumento della resistenza dell’uomo nella corsa su lunga distanza.

A seguito della mutazione l’uomo avrebbe dunque iniziato a sviluppare adattamenti anatomici “da corridore”, quali piedi più grandi, muscoli dei glutei più forti, gambe più lunghe, ghiandole sudoripare sviluppate utili a controllare la temperatura sotto il sole dell’Africa.

Ma come ha fatto Varki ad associare l’inattivazione di un enzima legato alle infiammazioni alla resistenza fisica? Mettendo dei topolini geneticamente modificati sul tapis roulant.

I topi con CMAH inattivato si sono dimostrati una volta e mezza più bravi dei non mutati, senza alcun addestramento. Il motivo principale sembra risiedere nell’utilizzo più efficiente dell’ossigeno da parte dei muscoli posteriori dei mutanti, grazie alla presenza di un maggior numero di capillari, che garantisce loro una maggiore resistenza alla fatica fisica.

L’inattivazione del gene potrebbe aver dunque fornito ai nostri antenati, impegnati nel sopravvivere nella savana africana, un vantaggio selettivo ed evolutivo.

 

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