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Krzysztof Wielicki: eravamo come uccelli in gabbia

Nato il 5 gennaio del 1950 è oggi una leggenda vivente dell’alpinismo Himalayano. Ha al suo attivo la prima salita invernale di tre Ottomila: Everest, Kangchenjunga e Lhotse. Quest’ultima in solitaria e nella stagione più fredda, aggiudicandosi così il primato di primo, e per ora unico, uomo ad aver scalato in solitaria un Ottomila d’inverno. Di chi stiamo parlando? Ovviamente di Krzysztof Wielicki capospedizione della passata spedizione polacca al K2.

Dopo aver disquisito con Janusz Majer di alpinismo invernale e di questa straordinaria storia che è l’himalaysmo polacco ci è sembrato giusto e doveroso fare qualche domanda a uno dei protagonisti indiscussi di quel periodo d’oro.

 

Krzysztof, cos’era l’alpinismo polacco degli anni ’70 e ’80?

Credo sia stata voglia di rivincita dato che ci eravamo persi la grande esplorazione degli anni ’50 e ’60. Ci siamo persi la corsa agli Ottomila.

Noi polacchi, negli anni ’70, eravamo affamati. Volevamo scrivere la storia e non più solo leggerla sulle riviste. Volevamo far parlare di noi. Eravamo come un uccello chiuso in gabbia a cui, quando apri la porta, lui vola via libero. Ci sentivamo così.

Nasce quindi così la voglia di cimentarsi nelle scalate invernali?

Abbiamo pensato a cosa ci fosse ancora da fare e gli alpinisti più vecchi han detto: se siamo stati in grado di scalare i Tatra in inverno perché non proviamo a fare alpinismo durante la stagione più fredda? Una buona idea perché ancora nessuno si era cimentato in questo tipo di alpinismo. Nessuno ancora aveva scalato le grandi montagne della terra durante la brutta stagione.

Da lì tutto ha iniziato a muoversi e Andrzej Zawada ha organizzato la prima spedizione all’Everest. Prima gli hanno rilasciato il permesso per la spedizione e poi, alla domanda, “quale vetta vuoi?” lui ha risposto con sicurezza: l’Everest! (ride)

Una spedizione di cui sei stato grande protagonista…

Si, anche se non me lo aspettavo. Io ero il più giovane e la mia esperienza alpinistica si fermava a montagne di sei o settemila metri. Non credevo che sarei potuto arrivare in vetta. Ripensando oggi a quei giorni mi vengono in mente tante domande. Mi chiedo, ad esempio, cosa sarebbe potuto accadere se non fossimo arrivati in cima. Chissà per quanto tempo l’Everest sarebbe rimasto inviolato in inverno. Chissà come si sarebbe evoluta la storia dell’alpinismo polacco. Me lo domando perché le conseguenze, in Polonia, di quella salita sono state motore di un nuovo orgoglio. Sapete cos’è successo qui? Hanno iniziato a nascere nuovi club alpini, molti si sono appassionati all’alpinismo. E poi hanno iniziato a cimentarsi nelle scalate invernali su altre montagne. C’era l’entusiasmo e il favore per tentare nuove salite, così siamo andati una seconda volta, poi una terza e così via. Andavamo e tornavamo con il Manaslu, con il Dhaulagiri, con il Kangchenjunga, con il Lhotse.

Come vi preparavate per andare in Himalaya?

Scalando. Ovviamente non solo sui Tatra, avevamo la possibilità di andare in Caucaso o nel Pamir per sperimentare l’alta quota. In quel periodo ci sono stati dati i passaporti, per poter andare all’estero. Ai tempi solo pochi potevano averlo.

Ricordo che per decidere chi poteva partecipare a queste spedizioni extraeuropee c’era una selezione, si andava per gradi. Prima di poter partire si doveva dimostrare un certo curriculum sui Tatra, era un’esperienza molto lenta ma formativa e sicura. Oggi invece è diverso, si tende sempre più ad accorpare l’esperienza.

Dici, quindi, che dagli anni ’70, ’80 a oggi sono cambiati gli alpinisti polacchi?

Non solo quelli polacchi, ma tutti. Sono stati i media a portare a questo cambiamento. Hanno permesso l’esaltazione del singolo. Oggi ognuno lavora per conto suo: vanno insieme in spedizione, ma guardano al risultato individuale.

Oggi tutti girano l’obiettivo per farsi un autoscatto. Se l’avessi fatto negli anni ’80 mi avrebbero detto “ehi, che problemi hai?”. Invece adesso è la norma mettersi in mostra singolarmente.

Credi che esista ancora qualche alpinista polacco in grado di rispecchiare lo spirito della vecchia generazione?

Tanti, ormai purtroppo passati. Oggi non credo, stanno su Facebook e Instagram a farsi i selfie.

Questo forte attaccamento ai social è stato uno dei problemi incontrati al K2?

In parte si. Abbiamo voluto dare agli alpinisti la possibilità di parlare con le famiglie, con gli amici, perché sappiamo bene cosa significa stare lontani per mesi senza poter comunicare con casa. Alla fine però i ragazzi avranno parlato si è no un minuto al giorno con i parenti mentre le restanti otto ore le hanno passate su Facebook a pubblicare foto.

È stato un grande sbaglio organizzativo perché se ognuno posta quel che gli pare alla fine partono informazioni, e opinioni, differenti. Questo genera confusione mediatica e non giova assolutamente al clima della spedizione. Per il futuro sarà necessario creare un unico canale attraverso cui mandare informazioni limitando l’uso dei Social Network.

Grande comodità di comunicazione, ma non solo. Quest’inverno avevate a disposizione tante comodità… Credi possa essere più facile realizzare una salita invernale grazie alle nuove tecnologie?

Credo che possano essere un vantaggio, in parte. Il successo non dipende però solo dall’equipaggio. L’attrezzatura ti può aiutare, ti può dare un maggior comfort, ma il successo non dipende solo da quello. Senza la determinazione non si va da nessuna parte.

 

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3 Commenti

  1. Altri tempi ed altra tempra di alpinisti.
    Un messaggio per la redazione: segnalo che le singole pagine (alpinismo, outdoor, sport etc.) non sono più aggiornate e sono ferme a metà dicembre; per chi non può vedere il sito giornalmente è un disguido poichè le informazioni non più presenti sulla pagina di apertura non sono più reperibili e quindi si può perdere qualche notizia interessante. Grazie

  2. Altri tempi sicuro. Ma di alpinisti con tempra oggi ce ne sono un bel pò non facciamo la solita odiosa retorica io di anni ne ho 60 e adesso ci sono dei gatti a 9 vite e che vanno come il vento.

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