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Prima salita di El Faro, Pilastro Sud del Cerro San Lorenzo. Il racconto di Jérôme Sullivan

Qualche settimana fa avevamo annunciato che gli alpinisti Martin Elias, François Poncet (a.k.a. Ponpon) e Jérôme Sullivan, fossero riusciti tra il 18 e il 19 ottobre nella mirabolante impresa di conquistare il Pilastro Sud del Cerro San Lorenzo (3706 m), seconda vetta più alta della Patagonia, al confine tra Cile e Argentina.

Una salita in puro stile alpino lungo una nuova via chiamata “La Milagrosa” che li ha portati in vetta ad una guglia precedentemente inviolata alta 1200 metri, ribattezzata dal trio “El Faro”. Una torre di roccia già notata da Colin Haley durante la salita dell’adiacente Aguja antipasto nel 2014, che la definì in tale occasione come l’obiettivo più attraente del massiccio del San Lorenzo nonchè probabile cima inviolata più difficile della Patagonia.

Finalmente Sullivan ha reso pubblici tutti i dettagli di questa avventura raccontandola sul suo blog Climb Patagonia.

I tre erano partiti in realtà con l’obiettivo di salire il Cumbre Central sulla parete Est del Cerro San Lorenzo, impresa già tentata nel 2017 e abortita a causa delle condizioni meteorologiche avverse, che avevano concesso loro soltanto una misera finestra di 12 ore di bel tempo. Quest’anno la presenza di seracchi instabili ha portato il gruppo a scegliere di non rischiare lungo la Est nonostante il tempo clemente. Nella necessità di decidere sul da farsi, i loro occhi sono stati catturati da quello che Sullivan definisce “un ago enorme che si innalza dalla porzione Sud Est della parete Est, attraente e protetto dai seracchi”.

Questa torre è stata oggetto in passato di vari tentativi di salita tra cui quello degli argentini Luciano Fiorenza e Pablo Pontarielo che avevano provato nel 2013 a raggiungerne la vetta risalendo lungo la immensa parete Nord ma erano stati costretti a ritirarsi a causa delle continue scariche di pietre che avevano distrutto anche parte dei loro ancoraggi. Caratteristica, quella della caduta di massi, segnalata anche nel 2016 dagli scalatori ecuadoriani Felipe Guarderas, Nicolás Navarrete e Roberto Morales. Lo stesso Haley aveva descritto la roccia della vicina Aguja antipasto come mediocre e impegnativa.

Il trio ha inizialmente tentato di raggiungere El Faro risalendo lungo la parete Nord, tentativo fallito a causa delle condizioni pessime del ghiaccio fin dai primi passi. Dopo aver preso del tempo per cercare un percorso che evitasse i pericolosi seracchi sommitali hanno deciso di spostarsi alla base della parete Sud e cercare qui una nuova via per attaccare il Pilastro Sud. Come racconta Jérôme, una volta arrivati “una via logica, nascosta fino ad allora, che risaliva lungo la fredda parete Sud si è mostrata ai nostri occhi. Una vera e propria apparizione che giocosamente attribuisce alla Vergine Lomo de Orios, raffigurata sul porta fortuna della spedizione donato dalla madre a Martin prima della partenza.

L’avvicinamento ha avuto inizio il 18 ottobre nel peggiore dei modi. Dopo una nevicata di 4 giorni si erano infatti depositati al suolo 20-30 cm di neve. Attraversato il Rio Lacteo, dopo un paio di ore di cammino, i tre si sono trovati di fronte ad un bivio: “attraversare una pessima morena laterale con rocce grandi come case fluttuanti in maniera instabile sulle nostre teste o affrontare la laguna de los tempanos”, un lago glaciale da attraversare saltando con un certo rischio da un iceberg all’altro. Un’impresa tentata nelle settimane precedenti con successo ma resa complessa dal peggioramento delle condizioni del ghiaccio. Non abbastanza da non tentare di nuovo. “Al primo salto sull’unico pezzo di ghiaccio grande abbastanza da darci sicurezza Martin ha gridato Les gars, la on fait vraiment de la merde!”, sottolineando in maniera colorita la sua preoccupazione.

Riusciti nell’impresa hanno montato il campo ai piedi della parete Est. Con qualche difficoltà a causa della neve fresca sono riusciti a raggiungere quindi il versante meridionale.

Alle 10 del mattino è iniziata la salita. Secondo le previsioni meteorologiche avrebbero avuto 48 ore di bel tempo. “Dopo una prima fase di arrampicata tecnica su misto, su roccia comunque buona, abbiamo raggiunto la rampa di neve e ghiaccio che avevamo già identificato durante il nostro giro esplorativoSiamo poi saliti slegati molto velocemente lungo i 500-600 metri della rampa raggiungendo la parte più ripida del versante.”

L’idea iniziale era di dormire sul colle e poi ripartire con la salita all’indomani ma le pessime condizioni della neve, della roccia e la mancanza di ghiaccio, che avrebbero causato di certo un forte rallentamento nella loro avanzata rischiando di perdere la finestra di bel tempo, hanno portato gli alpinisti a concludere che fosse meglio avanzare durante la notte.

“Quando la notte ci ha raggiunto stavo salendo i primi 30 metri di quello che sarebbe diventato il punto chiave di tutta la via: un camino verticale di 80 metri ricoperto di neve, di cui mi mancano le parole per descrivere la pessima qualità della roccia. Marcia non sarebbe abbastanza.”Un asco” come dicono i locals!”

Dopo aver fissato 30 metri di corda per salire in dry tooling e arrampicata artificiale, si sono calati nel pendio sottostante dove hanno ricavato delle mensole lungo il pendio ghiacciato su cui bivaccare.

Il mattino seguente “dopo un rapido giro di carta, sasso e forbici, Martin è stato così fortunato da avere l’onore di attrezzare il peggior tiro della via”. Tre ore di salita durante le quali sono stati costantemente esposti a scariche di pietre, una delle quali ha colpito il loro fornelletto scaraventandolo giù dalla parete e lasciandoli senza acqua né cibo caldo.

Arrampicando su misto hanno raggiunto il colle tra la “Torecilla”, definita come una “bellissima ed impossibile guglia” e il Faro. Trasferitisi quindi sulla parete Nord, con altri tre tiri su roccia ricoperta di brina hanno infine raggiunto la vetta “mentre calava la notte e le nuvole inghiottivano le montagne”.

Considerando i dubbi sulle nostre capacità tecniche che ci hanno perseguitato lungo l’intera via, la preoccupazione per la neve fresca, la roccia terribile  e ovviamente il tempo che è sempre peggio del previsto sul Cerro San Lorenzo, quel momento è stato davvero magico. Il sole stava sorgendo e la sua luce rifletteva nei miei occhi e in quelli dei miei compagni come una fiamma di follia!” – ricorda emozionato Jérôme.

Durante la discesa di circa 12 ore,  praticamente un’intera notte, Martin ha notato una macchia rossa nella neve: il fornelletto disperso ancora intatto dopo 400 metri di volo. Da qui la decisione di chiamare la via “milagrosa”, da milagros, miracolo.

Una via che Sullivan definisce come non particolarmente bella, considerando le pessime condizioni della roccia ma, come sempre accade quando simili avventure vengono vissute in team, una salita che senza dubbio ricorderà a lungo.

 

 

 

 

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