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Geoingegneria estrema per salvare l’Antartide

Negli scorsi giorni le osservazioni satellitari hanno riconfermato lo scioglimento progressivo dei ghiacci dell’Antartide rilevato durante la scorsa estate. Negli ultimi 25 anni il continente ha perso 3 mila miliardi di tonnellate di ghiaccio, con un conseguente innalzamento dei mari di 7,6 millimetri. E la velocità di scioglimento sembra essere in aumento. Cifre che di certo lasciano perplessi e portano gli scienziati ad ipotizzare scenari inquietanti.

Il problema fondamentale risiede nel fatto che il riscaldamento globale non rallenti in attesa che il mondo politico raggiunga un accordo sul da farsi. In soccorso dell’umanità arriva allora la geoingegneria glaciale, una nuova branchia dell’ingegneria che si prefigge di affrontare il problema del global warming con soluzioni d’ordine pratico.

Secondo lo studio di due ricercatori americani, Michael Wolovick e John Moore, recentemente pubblicato sulla rivista The Cryospher, è troppo tardi per provare a cambiare l’intero clima e conviene concentrarsi per limitare almeno una delle conseguenze dei cambiamenti climatici, ovvero l’innalzamento dei livelli del mare.

Due i piani ingegneristici, apparentemente folli e al momento puramente teorici, descritti dai due scienziati come potenziali opzioni per salvare un ghiacciaio esemplare, in fase di rapido scioglimento, che è il Thwaites. 120.000 chilometri quadrati di ghiaccio che, con una velocità superiore ai 2 chilometri l’anno, scivolano inesorabilmente verso il mare di Amundsen lungo la linea di galleggiamento, quella da cui il ghiaccio inizia a protendersi verso il mare. Si stima che il collasso eventuale di questo ghiacciaio possa innescare un effetto domino nell’Antartide occidentale, portando ad un innalzamento dei mari di almeno 3 metri.

Il primo progetto, che potremmo definire più “semplice”, prevede la costruzione al di sotto della lingua instabile della calotta (ice shelf) di colonne sottomarine realizzate con sabbia e ghiaia di mare, della dimensione della Torre Eiffel, che ancorate al fondale fornirebbero supporto alla piattaforma di ghiaccio limitandone la velocità di scioglimento. Cumuli alti dunque 300 metri costruiti utilizzando una quantità di materiale pari a quella impiegata per costruire il Canale di Suez o utilizzata per realizzare le Palm Islands, le isole artificiali di Dubai.

La seconda proposta è da immaginarsi come una grande barriera lunga 80-120 chilometri, costruita sotto la superficie del ghiacciaio che abbia come scopo quello di bloccare le correnti oceaniche più calde, evitando che queste raggiungano la base della calotta.

Secondo i due scienziati il secondo piano avrebbe un 70% di probabilità di risultare efficace, di contro al 30% del primo.

Scopo dello studio è stato primariamente quello di suscitare clamore e innescare un dibattito attivo nella comunità scientifica. Nonostante i risultati delle simulazioni siano interessanti, gli stessi scienziati ammettono infatti che sia impensabile poter realizzare questi progetti ambiziosi. Non solo per le difficoltà tecnologiche e i costi proibitivi ma anche perché entrambe le soluzioni ingegneristiche proposte risulterebbero inutili qualora le temperature continuassero a salire nei prossimi decenni come conseguenza delle incontrollate emissioni di CO2. Barriere e colonne potrebbero rallentare lo scivolamento in acqua dei ghiacci ma non avrebbero alcun effetto mitigante nei confronti di altri fenomeni legati al global warming quali ondate di calore, acidificazione dei mari ed eventi climatici estremi.

Neanche la fantasia ci basta più” sembrano aver voluto dire Wolovick e Moore, bisogna agire a livello governativo e in fretta.

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