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Pierluigi Bini: il mito con ai piedi un paio di Superga

Il suo era (ed è) uno dei nomi più celebri del Centro Italia. Negli anni ’80 forse il nome più conosciuto del Gran Sasso, la montagna su cui ha saputo portare una ventata di aria fresca e innovativa.

La sua più grande innovazione introdotta sulle pareti del Centro Italia fu l’uso dei chiodi solo per sicurezza e non per progressione oltre all’utilizzo, anche sulle vie più estreme, di semplici scarpe Superga. D’altronde “quelle si appiccicavano su qualunque cosa” ci racconta divertito il mito dell’Urbe Pierluigi Bini. Un nome che certamente avrete già sentito nominare. È l’uomo che ha rivoluzionato l’arrampicata del Centro Italia, quello che è sceso dalla Graffer disarrampicando o quello della prima solitaria alla via Buhl al Piz Ciavazes. Da dove inizia però questa storia?

“Tutto è iniziato a Roma quando avevo 14 anni, guardando le enciclopedie con un amico. Alla voce alpinismo c’erano questi scalatori impegnati nelle salite più ardite, ce ne siamo subito innamorati. D’altronde, da bambini, vedere queste immagini, vedere gli alpinisti sull’Everest, sul K2 o sulle grandi pareti delle alpi faceva un certo effetto. Un effetto talmente potente da spingerci a provare.

Dove hai iniziato ad arrampicare?

Le prima scalate le ho fatte sugli alberi e sui viadotti. Ricordo ancora le salite fatte sulla via Casilina, sul ponte del raccordo anulare, dove ho iniziato. Avevamo fatto alcuni buchi, ci eravamo costruiti delle prese, perché il muro era troppo liscio per essere salito nei suoi dieci metri di altezza.

Con il tempo poi ci siamo attrezzati un pochetto, i nostri genitori ci han comprato i chiodi e mi hanno iscritto al CAI. Un amico suggerì a mio padre che al Club Alpino magari mi avrebbero insegnato qualcosa e che poi certamente questa passione sarebbe scemata intorno ai 18, 19 anni con le prime ragazza (ride).

Qual è stata la tua prima volta in solitaria?

Era la Mario-Di Filippo al Corno Piccolo nel luglio del 1975, non avevo ancora compiuto 16 anni. Ricordo che solo dieci giorni prima l’avevo percorsa con Rys’ Zaremba, un istruttore del SUCAI, l’uomo che poi mi introdurrà al sesto grado. Era una bella via, allora purtroppo non ripetuta da 13 anni. Forse per questo mi è cresciuta dentro la voglia di ripeterla in solitaria autoassicurandomi con il metodo Casarotto.

Quel giorno sono salito tranquillo, senza grossi problemi poi, verso la fine della via, è scoppiato un temporale: cadevano fulmini, grandinava, pioveva. Arrivato in cima mi sono slegato lasciando, per paura, tutto il materiale in parete.

Uscii in mezzo alla grandine e ai fulmini con addosso solo una maglietta, mai più visto un temporale così (ride).

Quante vie hai percorso in solitaria?

Al Gran Sasso tantissime. Spesso ho ripetuto più volte le stesse vie in solitaria e continuo a ripeterle anche oggi. Ancora salgo un terzo e quarto grado slegato, un tempo andavo su gradi più alti.

Oltre al Gran sasso nel ’78 e ’79 ho avuto un’intensa attività in Dolomiti, facevo tre le settanta e ottanta vie a stagione. Ho fatto anche alcune belle solitarie come la via Gogna a Punta Rocca in Marmolada o la via dei Polacchi al Pan di Zucchero, sulla nord del Civetta e ancora il diedro Oggioni alla Brenta Alta.

Cosa ti dava l’essere da solo in parete?

Mi dava grande soddisfazione personale. Volevo realizzarmi e farmi conoscere, per questo cercavo di fare molte prime solitarie. Era soddisfacente perché erano salite che ancora non aveva fatto nessuno.

A influenzare questa mia voglia di successo era anche il fatto di venire da una situazione scolastica disastrosa, diciamo che ero alla ricerca di me stesso. Sono sempre stato preso per uno che non aveva voglia di fare nulla, per uno che non avrebbe mai trovato la sua strada. Aver finalmente scoperto qualcosa che sapevo fare bene, dove avevo un talento mi ha aiutato. L’avere poi le altre persone che, dopo avermi visto scalare, mi dicevano che ero bravo che ero forte, mi spronava a continuare in questa direzione. Ero super gasato da tutto questo e probabilmente mi gaserei ancora oggi sa fare quelle cose, anche se la testa oggi è un’altra. All’epoca pensavo di meno, ero giovane e non avevo una famiglia sulle spalle. Ogni cosa ha il suo tempo.

Hai mai avuto paura?

Qualche volta è accaduto, ma non sono mai state troppe le volte. Nonostante questo la paura c’è sempre stata. Si tratta di un sentimento normale che però sono sempre riuscito a tenere sotto controllo. La strizza è normale perché quando sei lì, da solo, a cinque o seicento metri da terra, capisci che ti potrebbe accadere qualcosa di inaspettato. Una volta in Marmolada ad esempio mi sono ritrovato a pensare molto spesso ai miei genitori, al fatto che erano soli a casa. È stato un momento particolare in cui ho sentito la morte molto vicina, con l’azione e la concentrazione del momento sono poi riuscito a uscire da quei pensieri e a riguadagnare la calma.

La mia fortuna credo sia stata quella di non essere mai stato preso dal panico.

Un’ultima domanda, cosa significa essere romano e fare l’alpinista?

In realtà io sono nato in Toscana, però sono cresciuto a Roma. Potrei definirmi un romano dal sangue toscano (ride).

All’inizio i romani erano guardati in generale con diffidenza quando salivano sulle Alpi, come se valessi meno di uno nato sulle Alpi. Anche io mi sono sempre sentito addosso questa cosa di essere romano, poi però quando mi vedevano arrampicare tutto cambiava. Sono stati molti quelli che sono venuti a complimentarsi con me dopo avermi visto in azione o che hanno iniziato a seguirmi. Alcuni mi hanno preso fin da subito come un piccolo mito (ride).

Come dico sempre puoi essere del Nord, del centro o del Sud, ma se sei uno che arrampica bene e sa quel che sta facendo vieni considerato al pari degli altri.

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