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Alberto Bregani: se non hai nulla da dire non devi scattare

Vi è mai capitato di rimanere imbambolati a fissare un’immagine? A noi è successo con un bianco e nero della Grande Guerra. Una foto scattata sulle trincee trentine, ormai qualche anno fa, dal fotografo Alberto Bregani.

Non si capiva con precisione il punto esatto di quello scatto, ma poco importava in quel momento. A colpire non era infatti il posto in sé, era quel che aveva da dire. Era il racconto che si nascondeva tra le trincee di quella foto. Osservandola abbiamo capito che scattare non è tutto, che dietro una fotografia ci può essere qualcosa di più, che ci può essere una storia e che questa storia deve uscire da sola. Guardando una foto non si deve cercare una spiegazione a quel che si sta osservando, deve essere tutto chiaro. Deve essere la foto a raccontarsi e non l’autore a raccontarla. Ecco, questo è l’effetto che ci ha fatto Alberto Bregani al nostro primo incontro. Un incontro particolare e molto suggestivo, così abbiamo deciso di andare alla scoperta di quel che si nasconde dietro l’arte di questo fotografo che si racconta e ci racconta la sua capacità di non immortalare i luoghi per dare invece spazio alle sensazioni.

 

Alberto, ti sei avvicinato prima alla montagna o alla fotografia?

La montagna è arrivata prima. Mio padre era uno scrittore e documentarista di montagna oltre che un alpinista. Oltre a questa sua influenza a incidere davvero è però stato il trasferimento, quando avevo circa due anni, da Milano a Cortina in quell’enorme parco giochi che sono le Dolomiti dove poi sono rimasto fin oltre i vent’anni. In quel periodo ho avuto occasione di fare e sperimentare tutto quel che fanno i ragazzi che vivono questo luogo dolomitico dove le possibilità sono infinite. A fianco di queste esperienze più “amatoriali” ho avuto la fortuna di poter seguire mio padre lungo i sentieri di montagna quando andava a realizzare i documentari. Servizi con cui ha vinto anche premi internazionali.

E qui che nasce la passione per la fotografia?

Mio padre è scomparso che aveva appena 57 anni. Io ne avevo 24 e da quel momento non ho toccato le sue cose per molti anni finché, il classico trasloco, mi ha costretto a prendere in mano i suoi ricordi. Ho aperto gli scatoloni e le borse trovando le sue fotocamere. C’era una Canon A1 che dietro aveva ancora quella targhetta che si mette per indicare il tipo di rullino inserito: una pellicola in bianco e nero.

L’ho presa, l’ho caricata con lo stesso tipo di rullino e ho iniziato a fotografare le montagne che mi circondavano.

Così hai iniziato fin da subito con il bianco e nero…

Si, ma è stato un caso. Ho iniziato in modo inconsapevole trovandomi bene in quel mondo così misterioso dove si può giocare molto con ombre e luci.

Oggi fotografo quasi solo esclusivamente in bianco e nero, tranne che in un caso: l’autunno. Sarebbe un’offesa non celebrare quel trionfo di colori, sebbene io lo racconti sempre a modo mio. In modo morbido e discreto.

Quando hai deciso di trasformare la passione in lavoro?

È successo pian piano. Con gli anni mi sono avvicinato sempre più a questo mondo fino ad arrivare al 2005, quando ho intrapreso la professione e sono diventato un fotografo professionista.

Cosa rappresenti con le tue fotografie?

Per rispondere riprendo Ansel Adams che diceva “Tu non fai una fotografia solo con la macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai ascoltato, e le persone che hai amato”. Tutti questi eventi, queste emozioni, questi incontri, si depositano per essere poi in parte assimilati. Si assorbono quelle sensibilità più vicine alle proprie corde, quelle che io ho incontrato prima nella filosofia del sublime dove la natura imponente e incombente ti fa sentire piccolo, impotente e quasi indifeso. Poi l’ho trovata nei racconti e nelle immagini di Buzzati o nel bosco di Mario Rigoni Stern.

È in queste sensibilità che sta la differenza tra le tue foto e quelle di un altro autore?

Un mio scatto difficilmente potrà stare su una rivista che tratta di montagna perché a fatica, come già detto, riesco a raccontare un luogo in modo didascalico, dove la fotografia “è” quel luogo. Io non ricerco la “descrizione”, ricerco invece una suggestione che l’osservatore poi possa raccogliere e fare sua. In molte mie foto a malapena si riconoscono le cime o la posizione geografica. Cerco di trasmettere il momento, quel che la montagna mi dice.  E se non mi dice nulla non scatto. Questa è la mia filosofia, ed è anche quello che cerco di insegnare ai miei corsi di fotografia: imparare a vedere, ad attendere, a ricercare. Se necessario a non fotografare finchè non arrivi quell’ispirazione che, allora sì, ti guidi a raccontare qualcosa che sia veramente tuo.

Ancora una domanda: nella vita hai imparato di più con la fotografia o andando in montagna?

La montagna è come il mare, bisogna conoscerla. Io non fotografo il mare perché non lo conosco, non perché non lo ritenga degno di essere fotografato.

La montagna ti insegna a vivere e a rapportarti con l’ambiente, ti insegna il rispetto e tutta una serie di regole che puoi riportare nella vita di tutti i giorni. La montagna ti insegna a non portarti troppo oltre i tuoi limiti, a prenderti dei rischi; ti insegna che si è un po’ tutti sullo stesso livello, ti insegna che la preparazione è importante. Stando in montagna impari il sacrificio, che solo faticando e camminando per ore puoi goderti qualcosa, che i più deboli non vanno mai lasciati indietro. In montagna impari che la rinuncia non è una sconfitta. Tutti insegnamenti fondamentali che solo la natura sa dare.

Con la fotografia invece ho imparato a star solo, che per raggiungere un risultato ci vuole tempo e studio. Ho imparato che la fotografia, che lo scatto, è l’ultimo atto di un percorso sia fisico che psicologico.

Cosa vuoi dire?

Vuol dire che nell’atto del fotografare, lo scatto per intenderci, si conclude tutto. Dentro lì nasce e finisce la fotografia. Non dopo, con ore se non giorni di post-produzione. È un discorso che va un po’ in controtendenza rispetto al pensiero comune di questi tempi, capisco. Ma non mi interessa. 

A riguardo cito spesso un pensiero di Michael Kenna che diceva che “”la fotografia di paesaggio, quella vera, la riconosci perchè ha sempre qualche piccola imperfezione. Perché l’imperfezione fa parte di quel momento. La post-produzione tende invece alla perfezione. Ebbene, questa non può far parte della fotografia di paesaggio, perché il paesaggio avrà sempre qualche elemento di imperfezione e l’imperfezione non si può riprodurre in studio””.  Non abbiate quindi paura di risultare imperfetti nella vostra fotografia; sarà una vera certificazione di autenticità. 

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Un commento

  1. bellissimo articolo complimenti! io sono fotografo food di professione, michelangeloconvertino.it e ho trovato questa intervista molto illuminante, per chiunque ami la fotografia!

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