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Quello che i ghiacci dicono

Valter Maggi è l’uomo del freddo. Climatologo dell’università Milano-Bicocca si occupa da anni di studiare i ghiacci del Pianeta. Ne legge le informazioni nascoste tra gli strati per trarne poi delle conclusioni su quello che è stato il clima terrestre, sul paleoclima del nostro pianeta.

 

Cosa ci raccontano i ghiacciai alpini?

Nel loro intero i ghiacciai, come oggetti che hanno subito processi naturali di crescita e ora diminuzione, ci raccontano che andiamo verso una perdita delle loro dimensioni, della loro massa, della loro superficie. Si tratta di una storia che ormai va avanti da 50 anni.

Dopo la breve avanzata degli anni ‘60 si sono ritirati in modo inesorabile. Ovviamente non tutti allo stesso modo, non tutti con la stessa velocità. Qualcuno ha dato delle notizie su piccole avanzate, ma si tratta di una cosa minima. Nel loro insieme i ghiacciai sono in ritirata.

Oltre a questo aspetto c’è anche da dire che i ghiacciai sono degli archivi perché, nelle aree in cui la neve viene conservata (nelle parti più alte: Monte Rosa, Monte Bianco), si creano zone di accumulo che permettono di raccontare la situazione ambientale e climatica delle Alpi negli ultimi cento, duecento o trecento anni. Dati che sono tra i più interessanti perché, si può dire, le Alpi si trovano nella zona forse più industrializzata del Pianeta e le tracce di questa industrializzazione vengono accumulate e conservate all’interno degli strati di ghiaccio che noi siamo in grado di studiare grazie alle perforazioni.

State continuando a fare questi lavori sui ghiacciai alpini?

Certamente. Abbiamo lavorato in passato sul colle del Lys e sul colle Gniffetti. Adesso invece stiamo lavorando su un ghiacciaio più strano rispetto a quello del Rosa che è l’Adamello. Strano perché è più basso, ma ha il vantaggio di essere più profondo (circa 270 metri di spessore). Il problema però è che essendo a quote più basse la parte superficiale, dove agisce la fusione, è difficilmente leggibile. Si spera però che, arrivando alla base, si possa trovare ghiaccio della piccola era glaciale intonso dal punto di vista delle informazioni. Questo ci permetterebbe così di raccontare una storia molto più dettagliata. Si tratta di un progetto in collaborazione con il MUSE di Trento, con la Fondazione Mach di San Michele all’Adige, con l’Università di Milano Bicocca, con l’ENEA, le Guide Alpine, l’Università di Innsbruck e l’Università di Bolzano. Un progetto molto articolato. Ad esempio uno dei lavori che stiamo cercando di realizzare è la ricostruzione della vegetazione utilizzando tecniche genetiche di sequenziamento in modo da andare alla ricerca di tutta la vegetazione presente e non fermarsi solo ai pollini riconoscibili.

Oltre che sulle Alpi hai lavorato anche in Antartide… i campionamenti fatti sulle Alpi e in Antartide hanno portato alle stesse conclusioni?

I ghiacciai chiaramente tendono ad archiviare informazioni che gli arrivano dalle precipitazioni nevose, considerando che queste precipitazioni sono a carattere regionale si può dire che le informazioni archiviate dai ghiacciai hanno carattere regionale. Quelli alpini sono fortemente legati all’area mediterranea, atlantica e al centro Europa. Quelli himalayani alla zona monsonica, quelli andini invece al Pacifico. Ogni gruppo montuoso racchiude informazioni a scala, possiamo dire, continentale. In alcune aree però, dove l’accumulo è talmente basso da non permettere il racconto di una storia minima ma media del nostro Pianeta, la scala aumenta diventando emisferica o globale. Il Polo Nord darà chiaramente informazioni per l’emisfero Nord mentre l’Antartide fornirà informazioni per l’emisfero Sud. Si è però visto che l’Antartide fornisce informazioni più globali rispetto all’Artico. Inoltre in Antartide si raggiungono gli 800mila anni. Si lavora in condizioni diverse.

Sappiamo che oggi i carotaggi effettuati sui ghiacciai del mondo sono conservati in EUROCOLD (European Cold Laboratory Facilities), il laboratorio blindato realizzato nel 2013… dove sta l’importanza di questa struttura?

Il laboratorio ci permette di lavorare nelle condizioni in cui il ghiaccio è stato “costruito”. Nel laboratorio abbiamo la possibilità di simulare le condizioni iniziali così da poter lavorare senza modificare in modo significativo lo stato del ghiaccio. È importante ricordarsi che il ghiaccio è acqua e anche se si trova a -10 o -15 gradi le reazioni chimiche avvengono ugualmente. Conservarlo quindi in modo sbagliato può portare a risultati diversi da quelli che si sarebbero osservati nel luogo del carotaggio.

 Questi carotaggi possono esserci utili in futuro?

Certamente. Ad esempio se facciamo un campionamento sul Monte Rosa oggi e uno tra dieci anni troveremo informazioni diverse, cambiamenti notevoli che possono richiedere anche dei confronti. Molto importante è però anche la conservazione dei carotaggi eseguiti su ghiacciai ormai destinati col tempo ad essere distrutti. Si tratta di materiali che in futuro ci potranno dare altre informazioni. Oggi abbiamo una certa capacità di analisi, magari tra 20 anni saremo in grado di avere un livello di precisione maggiore, o avremo migliori strumenti o anche solo nuove idee per interpretare i dati o studiare i materiali. Solo conservando i campioni potremo pensare di capire qualcosa di più in futuro.

Dovendo tirare le somme, qual è l’attuale stato di salute dei ghiacciai?

Dipende da dove ci troviamo. I ghiacciai in altissima quota (per le Alpi sopra i 4000 metri, per l’Himalaya sopra i 6000 metri) riescono ancora a conservarsi e mantenersi. A quote più basse invece si assiste ad un generalizzato ritiro.

Dovendo però tirare le somme bisogna dire che sulle Alpi, dal 1850 ad oggi, è andata persa metà della superficie dei ghiacciai. Ci possono essere piccole progressioni o ritirate, ma ormai metà del patrimonio si perso e, man mano che si ritirano aumentano perché si frammentano.

La stessa cosa succede a molti altri ghiacciai in molte altre catene montuose. Solo i ghiacciai neri dell’Himalaya, quelli coperti di detrito, hanno risposte più lente rispetto a quello non coperti che comunque, essendo più grandi, presentano una minor risposta ai cambiamenti climatici. In generale però non ho visto dati che mi fanno pensare ad una condizione diversa o ad una inversione di tendenza.

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