Storia dell'alpinismo

Walter Bonatti nel Polo del freddo – di Stefano Ardito

Foto di Walter Bonatti, da “I giorni grandi”

Simone Moro e Tamara Lunger non sono stati i primi italiani a innamorarsi della Siberia e del “Polo del freddo”. A metà gennaio del 1964 Walter Bonatti, con il giornalista Brunello Vandano e il fotografo Mario De Biasi, vola da Milano a Mosca, e prosegue verso Irkutsk e Yakutsk, “un’oasi umana in uno smisurato vuoto”.

Per il trentaquattrenne alpinista lombardo si avvicina il momento della scelta. Pratica ancora l’alpinismo di punta, e alla sua via nuova in solitaria sulla parete Nord del Cervino manca ancora un anno.

Ma a Bonatti l’alpinismo non basta più, e ha già iniziato a guardarsi intorno. Il viaggio nel cuore gelato della Siberia è uno dei suoi primi reportage per Epoca. Un anno dopo, esplorare i luoghi più impervi e selvaggi della Terra diventerà il suo lavoro a tempo pieno.

In questo viaggio Walter Bonatti fa il protagonista e la guida, ma testi e foto sono opera di altri. In futuro sarà lui a scrivere e a fotografare in prima persona. Il racconto del suo viaggio in Siberia è un capitolo de I giorni grandi, il suo secondo libro, che esce nel 1971 con prefazione di Dino Buzzati, e che l’autore dedica al giovane Reinhold Messner.

Con De Biasi e Vandano, nel gennaio del 1964, viaggiano insieme a Bonatti verso il “Polo del freddo” anche un giornalista e un fotografo sovietici, Igor Antonov e Valeri Schustov. Da Yakutsk, il gruppo si trasferisce in volo a Verkhoiansk e poi via terra, per 500 chilometri, a Oymyakòn. Nelle prime due località la temperatura è intorno ai -60°,  nella terza scende di altri dieci gradi.

In Siberia Walter Bonatti, che fino ad allora ha scritto quasi solo delle sue avventure in montagna, scopre i ritmi e il linguaggio del cronista. Si stupisce davanti ai fiumi ghiacciati che “sembrano di alabastro” e alle pianure dove al disgelo riemergono i resti dei “favolosi mammut”.

Soprattutto, condivide e racconta la vita degli allevatori di renne, seminomadi di etnia yakuta, che trascorrono turni di due o quattro settimane nella taigà, vivendo in capanne di tronchi oppure nelle yurte, pesanti e solidissime tende al cui interno si vive quasi nudi. Come loro, si sposta a piedi, in slitta o addirittura cavalcando le renne.

Insieme a loro, durante e dopo l’unico, “pantagruelico” pasto della giornata, brinda con la vodka e poi con l’alcool puro. “Il vermouth, la bevanda meno alcoolica, è riservata alle donne” racconta il viaggiatore arrivato dall’Italia.

Un giorno, poco prima del tramonto, l’alpinista che è in Bonatti torna a galla. Passo dopo passo, il neo-reporter di Epoca sale versi la collina che sorveglia Oymyakon, e che “rimane ancora lungamente illuminata dal sole mentre tutt’intorno è già scesa la sera”.

La neve, alta 40, centimetri, è “assurdamente soffice, secca e inconsistente”. I piedi, calzati nei morbidi vaglienki, gli stivaloni siberiani, poggiano sull’erba ghiacciata e la roccia sotto alla neve, e rendono la breve camminata scomoda.

Sulla cima, “nuovi orizzonti sorgono rigidi e incantati” intorno a Walter, che riesce a scattare poche immagini degli abeti imbiancati e del sole che scompare dietro a una collina. Poi, una dopo l’altra, le sue tre macchine fotografiche s’inceppano.

Verso nord, dalla sommità della collina, Bonatti vede in lontananza i monti Tcherskij, una catena vasta quanto le Alpi, scoperta solo nel 1926, teatro dell’avventura di Simona, di Tamara e dei loro compagni di viaggio. Ai loro piedi, secondo gli yakuti, il Lago di Lambankur ospita “un mostro pauroso, forse un ittiosauro”.

“Il fascino della taigà non sta nei suoi alberi o nel suo sepolcrale silenzio, ma nel fatto che solo gli uccelli migratori sanno dove essa termina” annota nel suo libro Siberia lo scrittore e drammaturgo russo Anton Čechov.

Per quante centinaia di verste si estendano questi boschi non lo sanno nemmeno i postiglioni e i contadini che sono nati nella taigà. Alla nostra domanda in proposito rispondono ‘non ha fine’!” prosegue. Un modo scarno ed efficace di raccontare il paesaggio che accompagna il viaggio di Bonatti. E che gli insegna a impostare i suoi futuri reportage.

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2 Commenti

  1. Bonatti nel 1976 fece un’esperienza in Artartide scaldando cime da 4000m quali il monte Lister, Hooker, Rucker e Gemelli nonché un picco altissimo senza nome posto tra l’Hooker e il Rucker.

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