Alpinismo

Da Roma alle montagne del mondo. La storia di Giorgio Mallucci

L’Appennino è scrigno di personaggi che non ti aspetteresti. Nomi che spesso passano inosservati al grande pubblico. Spesso perché privi di grandi sponsor che possano accompagnarli in giro per il mondo. Persone che non collezionano cime, ma che preferiscono (e preferivano) un alpinismo di ricerca ed esplorazione. Storie come quella dell’ormai settant’enne Giorgio Mallucci che ha dedicato (e continua a dedicare) un’intera vita al mondo delle alte quote.

“Tutto nasce da mio padre” ci racconta. “Era un grande appassionato e, quando ha deciso di portarmi con sé la prima volta, era un’aspirante guida alpina. Ricordo che avevo appena 8 anni quando mi ha portato a fare una via sul Gran Sasso. Se non sbaglio era un quarto, quarto superiore”. Inizia così l’avventura del romano Mallucci che in breve tempo passa dal Gran Sasso alle Dolomiti dove “passavo uno o due mesi durante l’estate” e poi il tetto d’Europa. Con il Bianco finivano le altezze europee. Non c’era nulla di più alto e così la mente ha iniziato a fantasticare su mete lontane, extraeuropee che poi sono diventate il pane quotidiano di Giorgio. “Ho tentato il Cho Oyu e lo Shisha Pangma, ma su entrambe non ho raggiunto la vetta” poi “ho capito che quello non era l’alpinismo che volevo. Sugli 8000 è tutto noto e pieno di gente. Ricordo che ai campi base, al Cho Oyu ad esempio, c’erano 250 persone ed è successo di tutto. Furti di materiale o, addirittura, qualcuno si è finito l’ossigeno che tenevamo per emergenza in uno dei campi. È entrato nella tenda, ha svuotato la bombola e se n’è andato senza nemmeno richiudere la cerniera” racconta ancora con rabbia l’alpinista che, dopo queste esperienze, ha preferito dedicarsi “a montagne più basse ma spesso tecnicamente più difficili”. Luoghi isolati, cime spesso involate in posti oggi semisconosciuti e irraggiungibili a causa della burocrazia o della precaria situazione politica.

“Nel 1963 mi sono ritrovato in Pakistan per tentare il Gamugal. Una cima inviolata di 6500 metri”. Un’esperienza eccezionale per lo scalatore che da quel momento in poi non si ferma più e così “giusto una manciata di anni dopo mi sono ritrovato a partecipare ad una grossa spedizione con Carlo Alberto Pinelli. La meta era una montagna di 7100 metri semisconosciuta. Avevamo troppe poche informazioni e infatti non raggiungemmo la vetta” ma sei anni dopo “ci ho riprovato con Gianpiero Di Federico e, in stile alpino, siamo arrivati in vetta”.

Una vita segnata da continue spedizioni quella di Giorgio Mallucci che oggi ha scelto come rifugio dal mondo caotico della capitale Kalymnos “dove passo ormai cinque mesi l’anno per avere un distacco da quel sistema di vita che ritengo, personalmente sbagliato”. Così il settant’enne romano che rifugge una vita “veloce, senza sorrisi, senza tempo da dedicare ai piaceri della vita” si rifugia nel tempio dell’arrampicata greco ma, non è finita, perché “giusto dopo la guerra dell’Afghanistan sono andato nel corridoio afgano per dimostrare che non si correvano rischi” e ancora “al momento sto aiutando a portare avanti un’esperienza in Etiopia, in una zona montuosa ricca di incisioni rupestri”. Un posto, ci racconta, molto difficile da raggiungere a causa dell’esposizione e delle difficoltà tecniche. “Le guide hanno realizzato degli intagli a cui far aggrappare i visitatori, ma se si vola, si vola”. Per questo Mallucci si è messo all’opera con altri ragazzi per insegnare a far sicura ai turisti in modo che possano salire in sicurezza.

Insomma, una vita vissuta appieno che, sicuramente, ci riserverà ancora molte altre avventure.

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