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“Eravamo dei provocatori della carta stampata” – Intervista a Enrico Camanni

Torino è città di montagne. Basta fare un giro per le sue vie per trovare le tracce di un passato in cui fiorivano umili alpinisti, ma intellettuali d’alta levatura. Anni in cui la montagna brulicava di giovani volenterosi disposti a tutto pur di poter vivere di montagna. Figure che negli anni hanno costruito il loro mito attraverso la gavetta dei primi anni da “lavoratori della montagna”. Tra i personaggi di questo tempo orami andato, del tempo delle blasonate riviste di settore e dell’alpinismo prima intellettuale e poi ribelle, figura sicuramente Enrico Camanni con cui abbiamo voluto scambiare quattro chiacchiere per farci raccontare qualcosa di sé e del mondo che ha vissuto.

Da cosa nasce la tua passione per la montagna e quando ti sei avvicinato all’alpinismo?

Quando i miei genitori hanno scelto Valtournenche per le vacanze. Qui avevano comperato un piccolo alloggio che affacciava con una grande vetrata sulla Tersiva e sulla centralina di Promoron impiccata ai dirupi del Pancherot.

Quello è stato il mio primo incontro con la montagna, avvenuto molto prima di scoprire il Cervino. Mi ero innamorato della centrale che butta l’acqua sulle turbine di Maen. A cinque anni dicono che passassi il tempo a fissare quello strano rifugio arroccato al versante di rocce scoscese; quando il buio nascondeva le rocce e accendeva le fantasie, la centrale diventava il mio faro. Alzavo la testa e sognavo. La prima montagna che ho amato è stata quel luogo di mistero e avventura. Poi sono venute le montagne vere.

Sulle Alpi hai dimostrato di essere un alpinista di ottimo livello. Quali sono i tuoi ricordi e com’era l’ambiente alpinistico di quel tempo?

Ho fatto moltissimo alpinismo tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Avrei anche voluto fare il corso guide, ma poi ho scelto il giornalismo. Ho pensato che era meglio diventare un buon giornalista che mezzo giornalista e mezza guida alpina. Sono cresciuto a cavallo tra la fine del Nuovo Mattino e l’inizio dell’arrampicata sportiva, esattamente a metà strada, comunque restavo uno che aveva cominciato a scalare con gli scarponi. Ero romantico come Gian Piero Motti e ribelle come i ragazzi del dopo Sessantotto, ho ripetuto le vie della Valle dell’Orco, ma amavo anche la montagna e non riuscivo a farne a meno. Era un periodo complicato, un momento di grandi cambiamenti. Per esempio ero amico di Massimo Demichela e di Marco Bernardi, così quando andavo con Max scalavo con un «reduce» della contestazione e quando andavo con Marco arrampicavo con l’avanguardia dell’alpinismo sportivo. Avevamo la stessa età, intorno ai vent’anni, ma all’epoca bastava un anno di differenza a metterti da una parte o dall’altra della storia.

Quando e come approdi al mondo del giornalismo?

Dopo la maturità avevo tanta voglia di andare in montagna e poca voglia di studiare. Leggevo, mi piaceva la parola scritta, ma volevo lavorare ed essere indipendente. Per l’università avevo scelto Palazzo Nuovo, il polo delle facoltà umanistiche torinesi, ma non sapevo a quale iscrivermi. Insomma ero confuso come tutti i diciottenni, e quando mi hanno detto che alla Rivista della Montagna cercavano uno che facesse fotocopie, correggesse bozze e magari scrivesse anche qualcosa mi sono precipitato.

Qual è stato il tuo primo incarico?

Gian Piero Motti aveva appena lasciato a Giorgio Daidola la direzione e serviva un segretario di redazione. Ho cominciato a lavorare a metà tempo e mi sono guadagnato il posto. Lavorare alla Rivista era come entrare in un film: c’erano tutti i personaggi delle mie letture, i grandi alpinisti, i miei eroi, ma c’era anche tanta voglia di fare un bel giornale, pieno di storie e provocazioni. La Rivista è stata un’ottima scuola di giornalismo artigianale, e io ci ho messo l’anima.

Si può dire che tu abbia vissuto da protagonista l’era d’oro del giornalismo di montagna, ci racconti qualcosa su questo movimento?

Era esaltante perché i giornali contavano. I lettori aspettavano con ansia l’uscita delle riviste, se scrivevi una cosa si diceva in giro, se proponevi un itinerario tutti andavano a ripeterlo. C’era poca informazione e tanta voglia di sapere, capire, imparare, aprire orizzonti. Il lavoro del giornalista era molto creativo. La Rivista della Montagna era un notevole laboratorio di idee basato su una redazione di non professionisti – perlopiù – ma con molta gente competente. Più tardi Alp è stata la risposta degli anni Ottanta, sul modello di Airone e dei mensili francesi. Alp era una rivista patinata e irriverente. Abbiamo destabilizzato il sonnacchioso mondo della montagna con grafica aggressiva e immagini provocanti, e soprattutto con cronache da giornale; ci siamo divertiti a ribaltare gli equilibri più inviolabili e sconfessare i pensieri più atrofizzati. Eravamo dei provocatori della carta stampata e la usavamo per scardinare i luoghi comuni.

Hai un aneddoto che ti è rimasto impresso degli anni alla Rivista della Montagna?

Nel 1977, il mio secondo anno alla Rivista, Renato Casarotto ha scalato la parete del Nevado Huascaran. Un’impresa inaspettata, eccezionale. Abbiamo aspettato che Renato smaltisse le fatiche e un pomeriggio di primo autunno ci siamo imbarcati per Vicenza su una Centoventisette granata. Motti, Daidola e io, il ragazzo di bottega. Siamo arrivati in città verso l’ora di cena e abbiamo trovato Renato e Goretta in un ristorante di periferia. Era il mio primo servizio da inviato. Ero molto emozionato. Davanti a me c’era il salitore dell’Eiger della Cordillera, il geniale stratega delle solitudini andine, il superuomo che non molla mai, diciassette giorni senza abbracciare la sua Goretta, ma in realtà era tutto falso. C’era solo un timido ragazzo di provincia dagli occhi buoni e dai modi impacciati, più preoccupato di tradurre le parole della moglie dal dialetto vicentino che a valorizzare i dettagli della sua scalata. Troppo giovane e dogmatico, non riuscivo a concepire la ricerca del limite così ben celata tra le pieghe della normalità.

Trovi che sia morto il giornalismo di montagna? Ci sono ancora giovani promettenti in questo campo?

Tu sei uno dei pochi, purtroppo. Forse non abbiamo fatto scuola, forse sono semplicemente cambiati i tempi. Credo che noi fossimo più idealisti e passionali, ma potevamo permettercelo perché c’era il lavoro. Se ci credevi tiravi fuori qualcosa. Anche uno stipendio. Quando ho lasciato la Rivista della Montagna ho tribolato un anno e in un altro anno abbiamo inventato Alp; oggi probabilmente non sarebbe possibile perché scarseggiano i finanziatori e l’informazione è finita nella centrifuga di internet. Dal poco si è passati al troppo, ed è successo troppo in fretta. Tutti s’improvvisano giornalisti e commentatori, si fatica a distinguere tra la fonte corretta, autorevole, e il sentito dire. Spesso sembra il Bar Sport: credo che meriteremmo di meglio.

Secondo te oggi potrebbero rinascere queste storiche riviste di montagna o siamo in un periodo ormai troppo proiettato al web?

Credo che una bella rivista, intelligente e autorevole, ci starebbe ancora. Credo ci sia lo spazio di mercato, cioè i lettori e la pubblicità. Dovrebbe nascere per mano di chi ha venti, trent’anni, com’è sempre stato per le avanguardie, coinvolgendo le firme giovani e meno giovani. Non dovrebbe scimmiottare internet, ma contenere tutto quello che internet non ha: la riflessione, il progetto e la regia. Contano molto il linguaggio e lo stile. La parola ha ancora un peso, la parola è tutto, e anche le immagini possono diventare racconto. Devono parlare insieme alle parole, non da sole.

Ultima domanda: secondo te cosa fa di un giornalista un buon giornalista di montagna?

Credo che la differenza fondamentale stia a monte, tra buoni e cattivi giornalisti. Poi serve competenza come in ogni settore, bisogna conoscere la materia, padroneggiare le sfumature, ma non basta sapere di montagna per fare un buon giornale di montagna. Lo ripeto: prima di tutto servono buoni giornalisti.

 

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2 Commenti

  1. Sicuramente l’editoria di montagna sarà in crisi, ma anche le riviste che abbiamo avuto nel passato ci hanno messo del loro.
    Mi ricordo quando ero giovane ed appassionato di montagna e, come regalo di Natale, avevo chiesto l’abbonamento ad Alp perchè i primi numeri negli anni ottanta mi avevano entusiasmato (ne ricordo uno memorabile con le vie di Gabarrou nel Monte Bianco). Peccato che negli anni ’90 (quelli del mio abbonamento) tale rivista abbia avuto una involuzione e, all’ennessimo articolo su Gipeto Reale, come successivo regalo di Natale ho chiesto che non mi rinnovassero l’abbonamento.

  2. Alcuni numeri storici li ho regalati…ed ora mi mordo le dita delle mani.Le monografie sui vari gruppi me le tengo, non si sa mai che servano alla dicendenza ..o aumentino di valore.Purtroppo alcune vie storiche sono…franate, vie sui ghiacciai ormai solo documentazione.In compenso ho fatto risuolare scarponi di cuoio e triplice cucitura e acquistato un altropaio d0occasione dello stsso tipo.Quelli leggeri incollati piu’ recenti si sono apertti come scatolette di tonno.Morale , inpassato si faceva roba buona in campo editoriale ed anche equipaggiamento.

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