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“Ultimo, come fa una guida, per portare tutti a casa”. Intervista a Michele Cucchi dopo la vetta del K2

Michele Cucchi e Hassan Jan in vetta (foto Klaus Gruber)
Michele Cucchi e Hassan Jan in vetta (foto Klaus Gruber)

BERGAMO – “Ultimo in salita, ultimo in discesa. Sicuro di non avere nessuno alle mie spalle e di portare tutti a casa, per quel che è nelle mie possibilità. Non volevo che nessuno della spedizione fosse dietro di me. La calotta finale era veramente ripida. Poi il filo di cresta; gli ultimi 40-50 metri; la vista che si apre a 360 gradi… Il mio urlo. Mi si è accelerato il battito quando ho urlato”. Questa l’intervista esclusiva a Michele Cucchi che insieme ai compagni pakistani della spedizione “K2 60 Years later” – Ali Durani, Ghulam Mahdi, Rehmat Ullah Baig, Rozie Ali, Hassan Jan, Muhammad Sadiq – è andato in cima al K2 sabato 26 luglio, nell’anno del 60esimo anniversario della prima salita della “montagna degli italiani”.

Quando ho incontrato a Bergamo Michele Cucchi, la scorsa primavera, mi ha impressionato il suo spirito pratico e il suo stile così lontano da quel piglio un po’ spaccone tipico di alcuni alpinisti di punta. Si interessava di tutte le questioni logistiche, si faceva carico di molte responsabilità, scendeva in cantina a riempire i bidoni in modo che tutto fosse riposto correttamente. Sarebbe andato sul K2 principalmente per la spedizione, non per puntare a salire il suo primo 8000.

Ieri l’ho raggiungo via Skype e, dopo alcune informazioni dal campo base, abbiamo incominciamo l’intervista. “K2?” Gli scrivo… vorrei capire quali parole, quali emozioni associa a quella sigla così austera. Dopo qualche titubanza mi risponde… Pronto, Vai! Capisco che con Cucchi occorre essere meno allusivi.

Partiamo dalla notte: dal campo base e da Bergamo, immaginando, con le informazioni che giungevano a spizzichi, era come vivere una veglia. Partiti i primi, poi sul traverso alcune figure… Dalle tende di campo 4 illuminate dai frontali…cosa hai provato?
Un grande misto: timore, paura, sfida. Quel che ho provato è stato questo la sensazione di iniziare una grande sfida accompagnata dal timore. Quassù eravamo in gioco. Guardare quei riflessi, sul seracco lassù è stato qualche cosa che non riesco a descrivere a parole.

A un certo abbiamo saputo che 6 pakistani erano in vetta, e che tu eri a 80 metri dalla cima. Poi sono passate circa 2 ore: ce le racconti?
In realtà Ali Durani, il più giovane dei nostri, insieme a Tamara (Tamara Lunger n.d.r) erano insieme, appena dietro agli sherpa con l’ossigeno. Ali e Tamara sono stati i primi del gruppo dei non “ossigenati”. Dietro a loro poi Rehmat e Medhi. Poi Ali Rozi. Sadiq e Hassan Jan erano appena davanti a me. Non volevo che nessuno della spedizione fosse dietro di me. La calotta finale era veramente ripida. Poi il filo di cresta; gli ultimi 40-50 metri; la vista che si apre a 360 gradi…Il mio urlo. Mi si è accelerato il battito quando ho urlato. Sono arrivato in cima con Klaus e sono arrivati Sadiq e Hassan Jan. Sadiq ha pregato, ci siamo abbracciati. Siamo rimasti là. Poi ho chiamato per radio abbiamo fatto le foto e iniziato la discesa. La nebbia, i fiocchi di neve, abbiamo preso un sacco di gente.

Da qui abbiamo pensato che tu fossi stanco. Invece volevi stare dietro, un po’ come fai quando lavori da guida. Guida alpina prima che sportivo. Ti sta bene?
Si certo è così, ultimo in salita, ultimo in discesa. Si, va benissimo. Sicuro di non avere nessuno alle mie spalle e di portare tutti a casa, per quel che è nelle mie possibilità. Un ricordo. Fatto il traverso la luce calava velocemente, Hassan Jan e Sadiq erano molto stanchi, ad un certo punto con la luce del tramonto ho avuto l’impressione di avere una grande nuvola sopra la testa… ho alzato lo sguardo ed invece era il seracco che ci sovrastava. Enorme. Incombente.

E per quanto riguarda i rapporti tra italiani e pakistani?
È stato il motivo per cui ho deciso di partecipare. Il senso più profondo di questa avventura. Siamo stati un gruppo unico, con qualche differenza ma un gruppo unico. Se fossimo stati solo italiani probabilmente non sarei venuto. Alla fine ho accettato per loro. Di questo ne sono certo così come ero certo che ce l’avrebbero fatta. È chiaro che hanno un bel percorso da fare ancora, ma abbiamo buttato delle belle fondamenta.

E tu? Eri certo che saresti salito?
Ma va!!!! Quando siamo andati a campo 3 a dormire per me è stato già tanto. Poi mi sono reso conto che stavo bene. Quando siamo partiti dal campo base per la salita finale non avevo nessuna aspettativa… è andata bene. Sono stato bene e siamo stati fortunati.

Questa esperienza come cambierà i tuoi programmi, il tuo lavoro di guida, le tue sfide alpinistiche?
Da una parte spero non cambi niente. È il bagaglio delle esperienze che cambia, che si arricchisce, che ti obbliga ad altre riflessioni. Il futuro? Mah. Chi lo sa?

Un’ultima cosa. L’avventura per salire una montagna come il K2 è durata quasi due mesi. Ci racconti un momento, un immagine, quella che senti essere la più intima? (A questa domanda segue un attesa di qualche minuto)
Penso quando è apparso! Quando ci è apparso in salita da Concordia! (I punti esclamativi sono più di dieci). Puro rispetto! Di piccoli uomini che si fanno accogliere in un enorme bacino glaciale al cospetto di sua maestà! Quel misto di terrore…rispetto…paura… come la mattina dell’assalto, ma senza la dimestichezza con l’ambiente che nel corso di questo mese un po’ si è instaurata dentro di me.

Grazie Michele, scrivo, insieme a tutti gli altri pakistani e italiani avete scritto una storia che è qualcosa di più e di diverso da una semplice sfida sportiva. È arrivata la pasta, vado a mangiare, risponde. E skype si spegne.

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Un commento

  1. “Siamo in cima!!! Siamo in cima!!!”………..Signor Cucchi ad 8611 metri, senza ossigeno, riesce ad avere la forza di gridare la sua gioia, ma che polmoni ha!
    Complimenti, complimenti vivissimi

    Filippo

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