Storia dell'alpinismo

Stupire e morire: la storia di Alison Hargreaves, mamma di Tom Ballard

Ero incinta, non malata”. Così rispondeva Alison Hargreaves a chi la criticava per aver salito in solitaria la Nord dell’Eiger quand’era incinta di 6 mesi di Tom Ballard.

L’alpinista inglese, una delle figure più contraddittorie ed eccezionali degli anni Ottanta, fu una ribelle sin dall’adolescenza e compì, da sola, salite che fino ad allora erano incredibili anche per gli uomini, come quella dell’Everest senza ossigeno, senza compagni e senza sherpa. Tentò di fare lo stesso sul K2, ma morì in discesa, a soli 33 anni, portata via da una violenta bufera che uccise sette alpinisti e che scatenò una delle polemiche più furiose di tutti i tempi.

Intrepida alpinista e madre affettuosa. E’ così che potrebbe essere presentata, in quattro parole, Alison Hargreaves.

Alison nasce in una famiglia borghese di Belper, nel Derbyshire. E’ una studentessa brillante, destinata a laurearsi ad Oxford, in una delle più prestigiose università d’Inghilterra. Ma l’arrampicata, che conosce durante l’adolescenza grazie a Hillary Collins, la moglie del fuoriclasse inglese Pete Boardman, cambia la sua vita. A 18 anni interrompe gli studi per dedicarsi all’alpinismo e se ne va di casa per convivere con James Ballard, il proprietario di un negozio di articoli sportivi, che ha 16 anni più di lei. Otto anni dopo si sposano e hanno due figli: Tom e Kate.

Chi ha conosciuto Alison Hargreaves, una piccola furia alpinistica (era alta meno di un metro e sessanta), la ricorda per lo straordinario talento naturale e per l’incredibile entusiasmo e determinazione con cui ha saputo insistere nelle sue ambizioni, ignorando i tabù dell’epoca e affermandosi già negli anni Ottanta come uno dei personaggi alpinistici più in vista a livello internazionale.

La Hargreaves passa in fretta dalle pareti rocciose del Derbyshire alle vertiginose pareti alpine, e poi all’Himalaya. La sua prima spedizione extraeuropea è sul Kantega, una difficile cima di 6.779 metri in Nepal, quando ha 24 anni. Fa squadra con tre americani, Jeff Lowe, Tom Frost e Marc Twight, con i quali apre una via nuova, molto tecnica, sulla montagna. Un’impresa che stupisce il mondo alpinistico, e che le fa per la prima volta sognare un Ottomila.

Nel 1988, però, rimane incinta. Ha 26 anni. Rinuncia temporaneamente all’Himalaya, ma non all’alpinismo: a 6 mesi di gravidanza, scala la Nord dell’Eiger in solitaria. La nascita di Tom, il bimbo che portava in grembo e, e due anni dopo quella di Kate, non fermano l’alpinismo di Alison Hargraves. In quel periodo, non lascia l’Europa ma non rinuncia a scalare: nel 1993, accompagnata dalla famiglia, compie un memorabile viaggio sulle Alpi durante il quale completa le 6 classiche Nord in solitaria: Eiger, Cervino, Aiguille Dru, Pizzo Badile, Grandes Jorasses e Cima Grande di Lavaredo. Un viaggio dal quale nasce “A Hard Day’s Summer“, il suo libro che ha però ben poco successo.

In quegli anni, poche donne sono impegnate nell’alpinismo, nessuna a questi livelli. La cosa da un lato dà fastidio a molti, dall’altro le fa guadagnare stima e ammirazione da parte di molti uomini e molte donne che oggi la considerano un’icona dell’indipendenza femminile. Per lei, comunque, la carriera alpinistica inizia a diventare un problema anche economico e così decide di ritornare in Himalaya, sperando di trovare sponsor più importanti.

Nel 1994, a 32 anni, tenta per la prima volta l’Everest: da sola e senza ossigeno. Ma deve rinunciare sopra Colle Sud, perchè si accorge di un principio di congelamento agli alluci che, continuando, avrebbe potuto solo peggiorare. Pochi mesi dopo, nella primavera 1995 ci riprova, dal versante Nord. Con una salita veloce, raggiunge la cima il 13 maggio, in completa autonomia nonostante i molti alpinisti che operavano sulla montagna: Alison trasporta sulle spalle i suoi materiali, si installa i campi da sola e non fa mai uso di bombole.

E’ un successo nazionale. La Heargreaves è la prima donna inglese a salire senza ossigeno la montagna più alta del mondo. E la prima nella storia a salire in completa autonomia. Ed ecco che nasce in lei il sogno di salire le tre montagne più alte della terra – Everest, K2 e Kanchenjunga – da sola e senza ossigeno. Rientra in Inghilterra per qualche giorno e riparte subito per il K2, che vuole raggiungere nella stessa stagione.

Incredibile ma vero. Ci riesce, dopo due mesi di estenuante attesa di una finestra di bel tempo al campo base. Purtroppo, però, non fa ritorno. Alison Heargreaves scompare in discesa, il 13 agosto 1995, nel mezzo di una tremenda bufera di neve che uccide anche tutti gli alpinisti saliti in vetta con lei: Javier Olivar, Rob Slater, Javier Escartín, Lorenzo Ortíz, Jeff Lakes e Bruce Grant.

Il gruppo arriva in vetta molto tardi, alle 6.45 del pomeriggio, dopo 12 ore di scalata. Una chiamata via radio dalla vetta annuncia il successo e un cielo incredibilmente limpido, mentre dal basso la cima risulta già coperta di nubi. “Li ho visti tutti superare il Traverso, poi sono scomparsi nelle nubi” – avrebbe poi raccontato Peter Hillary, il figlio di Sir Hillary, che li osservava con il binocolo. Hillary aveva iniziato la salita con la Heargreaves e gli altri, ma poi era tornato indietro temendo un cambiamento del meteo.

Nel giro di un’ora dall’annuncio della cima, sulla parte alta della montagna si alzano raffiche a 140 chilometri orari che distruggono le tende. Secondo quanto riferito dalla rivista Outside, qualcuno dal campo base vede con il binocolo degli alpinisti letteralmente portati via dal vento. Nessuna chiamata radio arriva più da lassù, e nessun corpo viene più ritrovato. Solo Jeff Lakes riesce a scampare a quell’orrore, ma muore al campo 2 di sfinimento.

La tragedia finisce su tutti i giornali e si scatenano le polemiche sulla scelta degli alpinisti di proseguire verso la cima, nonostante l’ora tarda e le previsioni meteo. A tener banco, però, sono le scelte di questa donna, madre di due bambini piccoli, che volle insistere per tentare la vetta nonostante le proteste dell’ufficiale di collegamento Fawad Khan. “Le dissi che era un suicidio, perchè aveva nevicato per dieci giorni” – raccontò Fhan alla stampa – “Tutti gli alpinisti presenti decisero di desistere. Ma d’improvviso lei cambiò idea e disse “io vado“. Pensai che fosse impazzita. Ma la sua decisione convinse altri a ritentare“.

Dopo la tragedia, i più la accusarono di essere un’esaltata e un’egoista. Di aver provocato altre morti a causa della sua follia. Di aver voluto tentare ancora solo per gli sponsor, di cui lei aveva bisogno per mantenere la famiglia. Molti scavarono nella sua vita privata mettendo in piazza presunti problemi familiari e i dissapori tra il marito e la sua famiglia d’origine, che non ha mai digerito la fuga della figlia a 18 anni. Insomma, le parole si sprecarono e ovviamente, le polemiche non ottennero alcuna risposta.

Oggi, però, i più ricordano la Hargreaves come un’icona dell’alpinismo femminile. Che ottenne risultati straordinari e che diede uno storico esempio di emancipazione nell’inseguire le sue aspirazioni. Una vita vissuta all’insegna del suo proverbio preferito: “Un giorno da leoni è meglio di cento giorni da pecora“, che è stata fonte di continua ispirazione anche per i suoi figli.

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8 Commenti

  1. Ringrazio lo staff per l’articolo molto ben impostato che mi ha fatto emozionare. Nell’occasione tantissimi auguri a tutte le donne di Montagna.tv.

  2. “In quegli anni, poche donne sono impegnate nell’alpinismo, nessuna a questi livelli”
    Senza nulla togliere alla grandissima Alison Harvreaves ma Wanda Rutkiewicz…?

    1. Hai perfettamente ragione, sono andato a rileggermi qualcosina, che donna, che tenacia, con tutto quello che personalmente ha dovuto attraversare, veramente ammirevole; senz’altro da ricordare al pari della Alison, naturalmente ce ne sono anche altre, l’ articolo era incentrato sulla mamma di Tom. Ti ringrazio, mi hai fatto ricordare le imprese di questa donna eccezionale.

  3. Sto leggendo un libro sulla vita di Allison dove si dice che l’Eiger lo scalò con Steve Aisthorpe e non in solitaria.

  4. L’articolo però non cita la collaborazione professionale con Diemberger che tra l’altro era con lei durante la salita al K2 e nella fase di discesa dalla cima. Da questa testimonianza risulta che sia morta di sfinimento al campo alto dove erano bloccati dalla bufera.

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