Pfitscherjoch-haus, la tormentata e appassionante storia del rifugio privato più antico dell’Alto Adige
Gestito sempre dalla stessa famiglia, dal 1888 sorge ai 2276 metri del Passo di Vizze su quello che oggi è il confine fra Italia e Austria. Da quella posizione privilegiata è stato silenzioso testimone di grandi cambiamenti
Da un lato, la valle forse più isolata, scura e selvaggia dell’Alto Adige. Dall’altro, una delle più turistiche e frequentate del Tirolo austriaco. Nel mezzo, a separare Valle di Vizze e Zillertal, un passo e soprattutto un rifugio, che dal 1888 funge da presidio per entrambe le vallate, dopo aver affrontato due guerre, l’età buia del terrorismo di confine e la trasformazione inevitabile e repentina delle diverse modalità di frequentazione di quelle cime che, da sempre, ne contornano l’esistenza.
Il Pfitscherjoch-haus, o Rifugio Passo di Vizze, è tutt’ora gestito – dopo ben 136 anni dall’apertura – dalla stessa famiglia: i Rainer-Volgger, già proprietari a fine Ottocento di un albergo a San Giacomo, nella Valle di Vizze, che ancora oggi appartiene ai gestori del rifugio Michael e Thomas Volgger.
«Il Passo di Vizze», racconta Leopold Volgger, attuale proprietario della struttura e cugino dei due gestori, «era allora utilizzato dai contadini della Valle di Vizze per portare al pascolo il bestiame nella Zillertal». Una tradizione rimasta poi immutata anche nel corso del Novecento, visto che ancora oggi gran parte delle malghe presenti nella Zillertal sono proprietà di contadini e allevatori provenienti dalla Valle di Vizze.
«Sul passo mancava però una struttura che potesse garantire alle persone anche solo una breve sosta – prosegue Leopold – ed era una mancanza che iniziava a farsi sentire in maniera prepotente, coinvolgendo anche gli alpinisti che proprio in quel periodo iniziavano a frequentare le cime qui intorno».
All’inizio era solo un punto d’appoggio per i contadini. Poi arrivarono gli alpinisti
Vette tutt’ora appetibilissime per tutti quegli escursionisti che vogliano mettersi alla prova sugli oltre 3.000 metri di queste montagne isolate e austere, da Cima Grava – meta prediletta, d’inverno, anche per molti scialpinisti – a Cima delle Cenge, passando per Croda Alta.
Ma nel 1888 queste cime, quando non inviolate, erano comunque appannaggio di pochi. Alois Rainer, bisnonno dell’attuale proprietario e già oste dell’albergo Knappenhof, capì che quei pochi rappresentavano il futuro e che era possibile trasformare quel pezzo di terreno che si apprestava ad acquistare in un ottimo investimento, costruendovi un piccolo ristoro per alpinisti e contadini.
«Lo realizzò completamente in legno – prosegue Leopold – con tanto di sala da pranzo, cucinino e qualche posto letto. Gli affari decollarono subito, così, qualche anno dopo, venne aggiunto un ulteriore edificio: questa parte del rifugio, realizzata interamente in pietra e completata nel 1897, è ancora presente nella sua forma originale».
Fu dunque un inizio promettente quello del Pfitscherjoch-haus, interrotto tuttavia con l’avvento della Prima Guerra Mondiale: nonostante il rifugio si trovasse in una zona riparata dal conflitto, lontanissima dalla linea del fronte, rimase chiuso ed inutilizzato per molti anni.
«Con l’annessione del territorio della Valle di Vizze all’Italia, – spiega Leopold – la Guardia di Finanza si rese conto di come il nostro rifugio si trovasse in una posizione davvero strategica, da cui era possibile avere visione di oltre 10 km di territorio, lungo tutta la Zillertal. Fu così che diventammo un ufficio doganale, una postazione di confine.
Negli anni ’30 venne inoltre costruita la Strada Statale 508, che da Bolzano passa per Sarentino, portando fino a Passo di Pennes, all’Alta Valle Isarco, e accedendo infine al confine di stato, dopo aver superato Vipiteno e, appunto, la Valle di Vizze. Fu parte di un’altra strategia militare: occorreva infatti velocizzare gli spostamenti».
I lavori finirono nel 1936. Oggi la strada è chiusa al traffico privato a partire dal quarto tornante, da cui si può proseguire a piedi per il rifugio dopo aver lasciato l’auto in un ampio parcheggio.
La tragedia dell’attentato irredentista del 1966
«La nostra struttura sembrò riprendere fiato dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma la situazione positiva durò ben poco. – riprende il racconto Leopold – L’Alto Adige, negli anni ’60, fu infatti teatro di continui disordini separatisti e cosi il Pfitscherjoch-haus venne nuovamente confiscato dai militari per il periodo che va dal 1963 al 1970».
Un periodo durante il quale anche i 2.276 metri di quota del rifugio non furono esenti dal terrorismo irredentista. «Il 23 maggio 1966 – racconta Leopold – avvenne un attentato dinamitardo difficile da dimenticare. Una pattuglia di finanzieri stava salendo al passo per controllare che tutto fosse in ordine ma, mentre aprivano la porta del rifugio, l’intera struttura in legno esplose, uccidendo l’appuntato Bruno Bolognesi. I responsabili non furono mai trovati, ma con ogni probabilità si trattava di membri del Befreiungsausschuss Südtirol (BAS), un gruppo terroristico separatista molto attivo in quegli anni».
Fra il 1971 e il 1972, la parte del rifugio sventrata dall’attentato fu pazientemente ricostruita dalla famiglia, per poter tornare nuovamente accessibile al pubblico a partire dal 1973, ma solo di giorno, mentre i pernottamenti furono riattivati tre anni più tardi, nel 1976.
«Fino al 1992, – prosegue Leopold – una parte dell’edificio venne però sempre utilizzata dalla Guardia di Finanza come ufficio doganale, presidio che fu poi abbandonato nel 1996».
Negli ultimi trent’anni, il rifugio privato più antico dell’Alto Adige ha seguito la strada indicata dal capostipite, Alois Rainer: quella cioè d’intuire con discreto anticipo la direzione dei nuovi turismi e assecondarne esigenze e aspettative.
«Ad oggi – conclude infatti Leopold – il nostro rifugio ha 60 posti letto, ma lavoriamo principalmente di giorno, grazie al grande exploit post pandemico della mountain bike e soprattutto delle bici elettriche. È un settore nuovo ed interessante, come l’alpinismo di fine Ottocento lo fu per nonno Alois».