La sensibilità di Hansjörg Auer, timido protagonista dell’estremo
Del fuoriclasse tirolese non rimarranno solo le imprese in parete. L’attenzione per il prossimo e la consapevolezza dell’importanza del mondo lontano dall’alpinismo, raccontate da chi lo conosceva bene
Il 16 aprile 2019 segna un momento funesto nella storia dell’alpinismo mondiale: in quella data persero infatti la vita Hansjörg Auer, David Lama e Jess Roskelley. Una valanga li spazzò via durante la discesa dall’Howse Peak (3295 m), montagna del Banff National Park, sulla quale erano saliti lungo la parete est. Tre fuoriclasse con caratteristiche ben definite, accomunati dal piacere per le grandi imprese, seppur declinate in modo differente, più alpinistiche per Auer e per Roskelley, più dedicate all’arrampicata estrema su roccia invece per Lama. Con quella tragedia, come dirà poi Reinhold Messner, ad andarsene fu “la metà dei migliori alpinisti mondiali”.
Ero entrato in contatto con Hansjörg Auer e David Lama nel 2016/17, mentre con Alessandro Filippini stavamo lavorando alla compilazione di L’assassinio dell’Impossibile, libro edito da Rizzoli che fece poi anche da perno per l’omonimo evento al Trento Film Festival. Una raccolta dei principali saggi messneriani sul 7 grado seguita da riflessioni di oltre quaranta grandi scalatori a livello mondiale. Contestualmente, mi ero ritrovato a lavorare alla traduzione e sottotitolatura del Director’s Cut di Still Alive – Drama am Mt. Kenya, film diretto dalla leggenda sudtirolese cui in qualità di attori avevano partecipato Hansjörg e Vitus Auer, suo fratello.
Se, però, i rapporti epistolari con David Lama, per quanto cordiali, non erano mai assurti al rango di costanti e/o amichevoli, vista la timidezza e la refrattarietà dell’asso bavarese, con Hansjörg si può dire che, grazie all’amore sconfinato di ambedue per le Dolomiti, trovare la lingua comune e il piacere del dialogo fu questione di una singola mail.
Ebbe così inizio un fitto scambio epistolare sui temi più disparati dell’alpinismo che però prevedevano sempre lo stesso saluto finale: “Dai, presto ci si trova per festeggiare con una sana birra”.
La conoscenza ebbe luogo in occasione della sopracitata serata del Trento Film Festival. Vidi arrivare quel simpaticissimo lungagnone un po’ dinoccolato, chiaramente timido, ma per nulla impacciato. Mi presentai e ricevetti subito una fortissima stretta di mano, assieme ai saluti del fratello Vitus, che avevo conosciuto l’anno precedente (e col quale ci eravamo divertiti a parlare delle “auerate” di Hansjörg ).
Iniziammo subito a chiacchierare, dirigendoci nel frattempo verso la sala dove avrebbe avuto luogo la conferenza stampa. Lì venni piazzato da Sandrone Filippini (regista e maestro di cerimonie) tra Hansjörg e Tommy Caldwell, del resto ero stato chiamato a tradurre per loro. Proprio per quella ragione, peraltro, chiesi ad Hansjörg di rispondere in inglese ad eventuali domande e se per lui potesse andar bene la sola traduzione in inglese di quanto detto, senza dover per forza ricorrere al tedesco.
Mi rispose sogghignando che per lui inglese o Hochdeutsch facevano assolutamente lo stesso, in quanto lui comunque avrebbe parlato tirolese, rendendo immediatamente felice un amante delle lingue locali, dei dialetti e delle varianti regionali o locali di una lingua “letteraria” come il sottoscritto.
Con un ghigno satanico ed una risata da furetto aggiunse:
“dopo una birra, poi, il tirolese viene meglio e più semplice, anche come pronuncia…”.
Quanto avvenuto quella sera all’Auditorium tra lui, Messner e me è stato ampiamente riportato, sia per quanto concerne la serata che per la dichiarazione d’intenti in termini di sacrosante birrate in compagnia. Di quell’evento ho un ricordo particolarmente nitido, con un capannello di persone sotto al palco, in attesa dell’inizio della serata, tutti a parlare di vie salite o da salire. Ondra, Manolo, Barmasse, Tondini, Caldwell e Auer, ovvero la crema dell’alpinismo e dell’arrampicata a livello mondiale, volti noti e “mediatici” ad altissimo livello, eppure ragazzi modesti, tranquilli, coi piedi per terra (almeno fino a quando non iniziano a scalare), per nulla supponenti e del tutto privi di atteggiamenti arroganti.
Di Auer, però, a colpirmi maggiormente fu la metamorfosi dello sguardo non appena iniziato a parlare del piacere di una salita o delle motivazioni che portano all’apertura di una data via. Pur mantenendo la modestia, la leggerezza e il profilo basso che gli permettevano di evitare atteggiamenti egocentrici, lasciava subito libero spazio alla sua determinazione e alla sua volitività, mostrando senza falsi pudori o remore la sua forza di volontà ed il suo desiderio pressoché passionale nei confronti della montagna.
Uno sguardo attorno a osservare i suoi colleghi ed amici, dopodiché, quasi ispirato, aggiunse:
“La nostra fortuna è che il mondo è pieno di linee favolose, sta a noi saperle vedere, riconoscere, e solo da ultimo salirle, senza forzature. Se riconosci e individui una via così e poi la riesci a salire rispettando le regole del gioco, quella via saprà renderti davvero felice. Le difficoltà che ti opporrà saranno solo un preavviso, un trailer della gioia che la montagna ti avrà riservato come compenso finale per esserti messo in gioco con tutto te stesso”. Notata la mia deformazione professionale di chi per mestiere non deve perdere manco una battuta, chiosa il tutto dicendo: “Vedo che mi capisci fino in fondo quando parlo, lo vedo da come lo spieghi alle persone e da come loro capiscono fino in fondo ciò che voglio dire”. Quella che seguì fu poi una serata favolosa.
Quella volta a Milano
Ad ottobre del 2018, a Milano per i Sustainable Outdoor Days, aspettavo Hansjörg per un’altra serata e per discutere di programmi culturali futuri. In un pomeriggio piovoso di ottobre mi squillò il telefono:
“Ciao Luca, sto parcheggiando, arrivo tra cinque minuti!”.
Poco dopo lo vidi arrivare, un abbraccio non di facciata, un gran sorriso e subito uno sguardo da furetto allegro:
“Bene! Auto parcheggiata, non devo più guidare… Birra?”.
Iniziò a raccontarmi del suo primo libro appena uscito e, credo fosse la seconda o la terza birra, passò a parlarmi della sua famiglia, di suo fratello Vitus, dell’altro fratello che era andato in Himalaya, dell’importanza della religione per la sua famiglia. Da buon tirolese, si sentiva legato ai tratti identitari della sua terra e della sua gente, religione compresa. Aggiunse sorridendo di non potersi certo definire un bigotto o strettamente osservante, ma allo stesso tempo di non poter pensare alla religione o a Dio come ad un fattore avulso alla sua vita. Alla fine, col più bello dei sorrisi, ammise, di ringraziare Dio perché a lui doveva l’esistenza delle montagne.
Poi, con una pacca sulla spalla ed una risata a novantasei denti, una frase che compresi solo dopo:
“Dai, andiamo, so che tradurrai il mio pensiero alla gente, ma soprattutto che mi permetterai di capire ciò che loro mi diranno”.
La comprensione della frase avvenne solo una volta iniziata la serata, per la quale mi chiese di poter parlare tirolese e non Hochdeutsch, per poi passare a mostrare alcuni filmati con le sue ultime prestazioni. Prima di ogni spezzone, come d’abitudine, si rivolgeva a me, un po’ per anticiparmi il contenuto da tradurre, un po’ per farsi dire se il pubblico stesse recependo o meno.
Pensai tra me e me di aver visto davvero in poche persone un simile rispetto verso gli altri e solo allora mi fu chiaro cosa avesse voluto dire prima.
Per Hansjörg ascoltare, conoscere era importante. Il rapporto umano, a casa sua o girando il mondo era fondamentale, vitale. Gli piaceva certo parlare alla gente, ma a renderlo felice era vedere la gente “sentire” quel che lui stava raccontando ed entrare in sintonia con lui.
Una frase, su tutte, può rendere la cifra della sensibilità e della grandezza di quel ragazzo:
“Noi alpinisti dobbiamo cercare di essere meno egocentrici, dobbiamo tornare ad avere il contatto con la realtà e con gli altri. Noi possiamo dire di essere fortunati. Passiamo mesi a studiare una qualche parete, a tracciare una possibile via, poi partiamo per andare a salire quella montagna, non abbiamo altri pensieri che quelli relativi a quell’ascensione. Torniamo poi in mezzo al mondo e magari ci aspettiamo pure che tutti abbiano voglia di parlare o di sentir raccontare di quella montagna, di quella via, quando invece il mondo e la vita vanno avanti e magari tutti quelli cui noi ci affanniamo a narrare le nostre piccole “imprese” in montagna hanno in realtà racconti e riflessioni ben più importanti ed interessanti delle nostre”.
Un pensiero rimastomi impresso per la profondità e l’assoluta leggerezza con cui era stato espresso, così come impresso mi era rimasto quel ragazzotto tirolese timido eppure determinato, volitivo ma rispettoso, insegnante e guida alpina. Un ragazzo con la testa sulle spalle, un inno alla vita che tanto amava, al punto da volerla vivere al massimo pur sapendo che così facendo si esponeva al rischio di poterla abbreviare.
All’ultima birra mi diede appuntamento ad inizio estate 2019. Avevamo in mente di scrivere qualcosa a quattro mani su uomini, montagne e confini del Tirolo e dei suoi vicini e avevamo progettato di farlo tra birre e risate, parlando di montagna e di famiglia, di montagna e di amici, di montagna e di scalate. Ma il destino aveva deciso diversamente.
Moch’s guat, Bursch, irgendwon segn uns mol wieder!
Per approfondimenti:
- Luca Calvi, Lost in Translation, Roma, Edizioni del Gran Sasso, 2023