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Processo Rigopiano, richieste pene pesanti. I PM: “Vogliamo dare una risposta al dolore”

Chi governa la montagna deve tenere in considerazione il suo ambiente, e i possibili pericoli che a questo sono legati. Vale a tutti i livelli territoriali (Comuni, Province, Regioni). Vale per le decisioni immediate, che riguardano emergenze in corso o in arrivo, vale anche per le questioni che hanno tempi più lunghi, come la programmazione urbanistica del territorio. Queste considerazioni, ci sembra, sono alla base delle pesanti richieste di condanna avanzate dalla Procura della Repubblica di Pescara nel processo sul disastro di Rigopiano, dove 29 persone, il 18 gennaio 2017 sono morte tra le macerie dell’albergo, che è stato raso al suolo da una colossale valanga.

Il processo, che si svolge con rito abbreviato davanti al Gup Gianluca Sarandrea, ha come imputati 29 persone fisiche e una società. In tre udienze, nella scorsa settimana, il Procuratore Capo Giuseppe Bellelli e i sostituti Andrea Papalia e Anna Benigni hanno ricostruito l’accaduto, e illustrato le ipotesi di reato a carico degli imputati. In tutto sono stati richiesti 150 anni di carcere. Nei prossimi giorni la parola passerà ai difensori, la sentenza è prevista per febbraio.   

Il dolore che tutti hanno provato di fronte a questa tragedia è stato il motore di questo ufficio, e a questo dolore vogliamo dare una risposta” ha detto il sostituto procuratore Anna Benigni. “Non sempre gli enti hanno a cura l’incolumità o l’interesse collettivo. Comune o Prefettura avrebbero dovuto fare il loro dovere impedendo la costruzione dell’hotel o evacuando la struttura” ha proseguito. All’inizio della sua requisitoria, che è durata cinque ore i volti delle 29 vittime sono stati proiettati sui monitor. Secondo il sostituto procuratore Benigni, la strada di accesso a Rigopiano e all’albergo avrebbe dovuto essere tenuta pulita, per garantire l’unica possibile via di fuga agli ospiti e ai lavoratori della struttura. “Il sistema di allerta meteo ha funzionato”, ed era “specifico compito del sindaco di Farindola controllare il bollettino Meteomont”. Nell’Italia che spesso ignora la montagna non si tratta di un’affermazione da poco.

Gli altri due magistrati della Procura hanno affrontato uno dei punti più delicati dell’inchiesta, i ritardi nell’apertura della Sala Operativa e del Centro Coordinamento soccorsi. Nella sua requisitoria, il pm Andrea Papalia ha rivelato che tra i documenti acquisiti dopo la tragedia sono due note prefettizie del 16 e del 17 gennaio 2017, inviate alla Presidenza del Consiglio, al Ministero dell’Interno, al Presidente della Regione Abruzzo e alla Sala operativa della Protezione Civile regionale. Entrambe affermano che la Sala Operativa provinciale di Protezione Civile e il Centro coordinamento soccorsi erano stati attivati il 16 gennaio alle 9. “Le indagini e le risultanze investigative” ha spiegato il Pm Papalia “hanno dimostrato la falsità delle circostanze rappresentate in queste note, che erano finalizzate evidentemente ad attribuire alla Prefettura una apparente tempestività e capacità di intervento nell’emergenza”. In realtà, secondo Papalia, le strutture sono state effettivamente attivate solo la mattina del 18 gennaio mattina. Se questo fosse avvenuto quarantotto ore prima, forse la tragedia sarebbe stata evitata.

Le parole più dure sono state dette da Giuseppe Bellelli, Procuratore Capo di Pescara. “Parliamo di depistaggio ma non ci sono grandi misteri da svelare. C’era l’inefficienza grave della Prefettura, non ci sono grandi depistaggi italiani: non c’è un anarchico che cade dal balcone della Questura, non ci sono tracce scomparse dal cielo di Ustica, non c’è una agenda rossa trafugata. Parliamo di un Prefetto di provincia che lascia cadere nel vuoto una richiesta di aiuto”.

Di conseguenza, le richieste di condanna per gli imputati sono state pesanti. Per l’ex prefetto Francesco Provolo 12 anni, per i dirigenti della Prefettura Leonardo Bianco e Ida De Cesaris rispettivamente 8 e 9 anni. Per i dirigenti della Provincia di Pescara Paolo D’Incecco e Mauro Di Blasio la richiesta è stata di 10 anni, per l’ex-Presidente Antonio Di Marco di 6 anni. Per i dirigenti regionali Carlo Giovani, Pierluigi Caputi, Emidio Primavera, Sabatino Belmaggio, Carlo Visca 5 anni, 7 anni per il loro collega Vincenzo Antenucci. Anche il Comune di Farindola, per la Procura, ha delle responsabilità gravi. Per il sindaco Ilario Lacchetta, e per il dirigente comunale Enrico Colangeli la richiesta è stata di 11 anni e 4 mesi. Per gli ex-sindaci Massimiliano Giancaterino e Antonio De Vico 6 anni, per Bruno Di Tommaso (il gestore dell’hotel) 7 anni e 8 mesi. Sono stati chiesti 4 anni per il geologo Luciano Sbaraglia, e pene minori per i dirigenti provinciali Giulio Honorati (4 anni), Tino Chiappino (3 anni), Andrea Marrone (2 anni) e il tecnico Giuseppe Gatto (1 anno) Sul fronte del depistaggio in Prefettura la richiesta è stata di 2 anni e 8 mesi per Daniela Acquaviva e Giulia Pontrandolfo, e di 2 anni per Giancarlo Verzella. E’ stata chiesta l’assoluzione per Antonio Sorgi (prescrizione) e i per funzionari della Prefettura Salvatore Angieri e Sergio Mazzia. Per la Gran Sasso Resort la richiesta è stata di 200 mila euro. Si ritiene prescritto, e quindi da assolvere, l’imprenditore Paolo Del Rosso.

Di fronte a queste richieste, ha scritto sabato 26 il quotidiano Il Centro, la reazione dei familiari delle vittime è stata positiva. Giampaolo Matrone, uno dei sopravvissuti che era presente in aula, ha raccontato di aver provato “qualcosa di simile alla gioia”. “Abbiamo assistito a tre udienze importantissime, tre giorni in aula, finalizzati al raggiungimento della tanto attesa sentenza di primo grado” aggiunge in un comunicato il Comitato Familiari delle vittime. “Sono richieste di condanna che non ci fanno gioire, perché nessuno di noi chiede vendetta, ma che ci fanno credere nella giustizia. Richieste di condanna che, se confermate o rafforzate nella sentenza di primo grado e nei gradi di giudizio successivi, servirebbero a dare pace e dignità ai nostri 29 angeli abbandonati a Rigopiano ad aspettare la morte, privati della loro libertà di scelta, perché intrappolati come topi, inascoltati nelle loro disperate richieste di soccorso” prosegue il comunicato. “Una sentenza di condanna” conclude il Comitato, “aiuterebbe noi familiari a ritrovare un po’ di serenità e ad affrontare il nostro ergastolo del dolore, nella consapevolezza di aver dato giustizia ai nostri cari. Una sentenza di condanna che restituirebbe a tutti gli italiani la consapevolezza e l’orgoglio di vivere in un Paese civile, capace di difendere chi subisce un gravissimo danno e di punire chi sbaglia”.

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