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L’Alto Adige ha 100 anni

 

L’Italia non ama gli anniversari imbarazzanti e di quello che si celebra in questi giorni si sta parlando poco o nulla. Ma quell’evento lontano ha cambiato le cose non solo per i residenti, ma per chi ama camminare, arrampicare, pedalare in mountain-bike o sciare, e ha l’Alto Adige/Sudtirolo tra le sue mete preferite. Merita quindi un ricordo e un tentativo di capire.   

Il 10 settembre 1919, con il Trattato di St-Germain, Gran Bretagna, Francia, USA e Italia impongono severe punizioni all’Austria sconfitta nella Grande Guerra. Tra queste il divieto di unificazione con la Germania, che verrà realizzata diciotto anni dopo da Hitler. Con il Trattato, entrano nel Regno d’Italia territori abitati prevalentemente da italiani come il Trentino, Trieste e la Venezia Giulia. E la parte meridionale del Tirolo, a sud del Brennero, dove la popolazione parla solo tedesco. 

La Grande Guerra dell’Italia, iniziata per “completare il Risorgimento” annettendo le ultime terre abitate da italiani, diventa un’altra cosa. Altiero Spinelli, tra i padri dell’Europa unita, scriverà che quel giorno “l’Italia è uscita dalla tradizione del Risorgimento, e ha imboccato la strada delle conquiste nazionaliste”.

Inizia nel 1919 una storia complessa e dolorosa, che chi visita il sorridente Alto Adige di oggi ignora, e che nelle scuole italiane non si insegna. Una storia non facile da sintetizzare, ma una sintesi imperfetta è sempre meglio del silenzio. 

Le truppe italiane arrivano al Brennero nel 1918, dopo la vittoria sul Piave. Nel 1919, con il Trattato, inizia lo sforzo per cambiare i nomi dei monti, delle valli e dei borghi, e quello, molto più difficile, per cambiare la lingua e la testa della gente. Dal 1922, con Mussolini al potere, tutto diventa più violento. “Renderemo italiana quella regione perché è italiana geograficamente, italiana storicamente” urla il Duce nel 1926. 

Nel Sudtirolo diventato Alto Adige arrivano i toponimi inventati da Ettore Tolomei (la Fischleintal, la “Valle del Pesciolino”, diventa la Val Fiscalina), scuole e burocrazia solo nella lingua di Dante, la persecuzione degli “alloglotti” con il divieto di esprimersi in tedesco nei luoghi di lavoro, inclusi i rifugi del CAI. Dal 1936 nasce la zona industriale di Bolzano, e arrivano in Alto Adige migliaia di operai italiani.  

La reazione pacifica vede la nascita delle Katakombenschulen, le “scuole catacomba” dove si insegna in tedesco. Quella militante prende forza nel 1933, quando Hitler prende il potere in Germania, e molti altoatesini lo guardano come un possibile salvatore. Per il dittatore nazista, però, l’alleanza con Roma è più importante di Bolzano. E con la guerra mondiale in arrivo ha bisogno di giovani da arruolare nella Wehrmacht. 

Con le “opzioni”, decise dai due dittatori nel 1939, i Sudtirolesi hanno un’alternativa tremenda. Lasciare la loro terra, diventando cittadini del Reich. O restare nell’Italia fascista, da italiani come gli altri. Dei 246.036 aventi diritto, 211.799 “optano” per partire. Circa 75.000 se ne vanno davvero, prima che la guerra blocchi tutto. 

Nella Seconda Guerra Mondiale migliaia di Sudtirolesi si arruolano nelle SS, nel 1945 vengono aiutati a Bolzano vari capi nazisti in fuga verso il Sudamerica. Con la pace tornano a casa gli “optanti”. Alle richieste di indipendenza, l’Italia risponde creando il Trentino-Alto Adige, dove la popolazione di lingua tedesca è minoranza. 

Seguono gli anni del terrorismo, l’inizio di un dialogo tra i politici italiani (soprattutto Giulio Andreotti e Aldo Moro) e la Südtiroler Volkspartei di Silvius Magnago. Il Pacchetto, l’accordo che dà vita alla Provincia bilingue di oggi viene approvato nel 1969, e accettato dall’Austria. 

I Verdi di Alex Langer si oppongono alla “proporzionale etnica”, che riserva due terzi degli impieghi pubblici al gruppo tedesco tedesca. Forse, dopo 50 anni, anche il Pacchetto dovrebbe essere cambiato. Ma la base dell’Alto Adige di oggi è quella. 

Per capire questa storia consiglio due libri. Il primo, Il confine di Sebastiano Vassalli (Rizzoli, 2015) è un breve saggio. Il secondo, Eva dorme di Francesca Melandri (Feltrinelli, 2010) è un romanzo ambientato nel dopoguerra, tra il boom del turismo, le bombe, la repressione italiana, e l’avvio di un dialogo tra le comunità contrapposte.   

Ma per capire la storia serve anche andare in giro e vedere. Un tour nella storia dell’Alto Adige può iniziare da Castel Firmiano, uno dei musei di Reinhold Messner, che ha ospitato nel 1957 una enorme manifestazione al grido di “Los von Rom”, “via da Roma”. Nel mastio, un’esposizione racconta l’ultimo secolo di storia. A Castel Tirolo è esposto il manuale di Ettore Tolomei per la trasformazione dei nomi. In Val Passiria, nel museo di Andreas Hofer, eroe di due secoli fa spesso usato in chiave anti-italiana, si scopre che l’oste diventato condottiero ha combattuto bavaresi e francesi, è stato tradito dall’Austria e fucilato dalla Francia. Contro gli italiani, lui, non aveva proprio nulla. 

In montagna ci sono gli ex-rifugi del DÖAV, il Club alpino austro-tedesco, diventati preda di guerra nel 1918 e poi assegnati alle sezioni del CAI. Da qualche anno i rifugi Firenze, Roma, Città di Milano e tanti altri sono tornati alla Provincia di Bolzano. In più casi, in nome della giustizia storica e dei trattati, sono stati cancellati la passione e il lavoro di tanti soci.       

Infine, anche se è orrendo, va visto il Monumento alla Vittoria, nel centro di Bolzano. Inaugurato nel 1928, è decorato da scritte in latino che inneggiano alla conquista e da enormi fasci littori. Non sorprende che un edificio del genere sia nato sotto Mussolini, stupisce vedere come sia sopravvissuto al fascismo, e sia rimasto al centro della scena politica. 

Nel 2001 la decisione del Comune di Bolzano di ribattezzare il luogo Piazza della Pace ha causato polemiche violente, e manifestazioni degli Schützen e di Casa Pound. Nel 2014, nei sotterranei del dinosauro di pietra, è stato inaugurato un percorso che racconta la storia della città dal 1918. Le spiegazioni sono in tre lingue, e prima dell’italiano e del tedesco c’è l’inglese. E’ ancora difficile trovare un modo condiviso di raccontare la storia di questa parte del mondo. 

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4 Commenti

  1. Salve,
    bene l’articolo e condivido le considerazioni di Stefano a cui mi permetto consiliare di suggerire anche il libro della Gruber (Tempesta-2014) per non dare indicazioni di sola “etnia” italiana che forse, non sempre, sa conoscere il vero significato di “heimat”.
    Bruno Zannantonio

  2. Buongiorno, ai libri consigliati aggiungerei “Resto qui”, di Balzano, ed. Einaudi. Un libro straordinario per capire quanto successo in Val Venosta dal 1918 in poi. Saluti, Nicola Miolo.

  3. Piccola integrazione/correzione:
    Il 17 novembre del 1957 Magnago organizzò a Castel Firmiano una manifestazione a cui parteciparono 35.000 persone. È qui che coniò lo slogan Los von Trient! (Via da Trento!), per sostituire il vecchio Los von Rom (Via da Roma!) e nel secolo precedente il Los von Innsbruck. Uno slogan, spiegò Magnago, non contro i trentini, bensì contro i dirigenti trentini della Democrazia Cristiana, che sancì il passaggio della SVP dalla posizione di secessione/riunificazione a quella della richiesta di una forte autonomia a livello provinciale in luogo di quella regionale (regionale, dove il “Tedesco” rimane per sempre minorità).

    estratto da https://it.wikipedia.org/wiki/Silvius_Magnago

  4. Vi consiglio di leggere anche “Gli eredi della solitudine” di Aldo Gorfer e Flavio Faganello. Un fantastico reportage sulla difficile vita nei masi più isolati dell’alto adige quando ancora non c’erano strade e benessere, e poi “Eva dorme” di Francesca Melandri, per approfondire la storia di questa fantastica regione.

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