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Caravanserai, una filosofia che va oltre i confini

Quattro Paesi dell’Asia centrale, due amici in sella alle rispettive mountain bike e una bandiera occitana. Si potrebbe riassumere in queste poche parole l’ultimo viaggio del progetto Caravanserai, ma sarebbe riduttivo. Caravanserai, nome d’invenzione di cui dopo vedremo il significato, è quasi una filosofia di vita a cui si ispirano Valter Perlino e Sebastiano (Seba) Audisio. Piemontesi o, meglio, Occitani d’origine, dal 2012 si muovono lentamente in sella alle loro biciclette alla ricerca di territori, montagne, genti, incontri che ti cambiano profondamente. Vivono in quel limbo che separa i turisti dai viaggiatori. “Siamo tutti turisti” replica subito Valter. “Quando parti sapendo già che tornerai sei un turista. Quando invece parti per un viaggio e questo cambia la tua vita allora diventi un vero viaggiatore”. Bangladesh, India, Nepal, Alaska, Afghanistan, Pakistan e molti altri gli stati che questi due ragazzi hanno pedalato alla ricerca di montagne e incontri, istanti in grado di cambiarti l’esistenza rendendola forse più facile e meno oppressa da tutte quelle preoccupazioni tipiche del mondo occidentale.

Evita un percorso predefinito, prenditi il tuo tempo, impara a non dipendere dagli altri, viaggia leggero e con ritmi lenti, utilizza i mezzi locali ma evita gli aerei, ogni tanto viaggia da solo, il cammino conta più della meta, gli incontri contano più dei luoghi, fai tue le esperienze vissute e cerca di trasmetterle. Sono queste, e altre, le regole di viaggio che i due si sono prefissati. “Sono quindici, ma non riusciamo a seguirle tutte”. Quasi impossibile perché vorrebbe dire cambiare radicalmente stile di vita. “Non ho mai sputato addosso a quel che faccio qui per vivere, alla mia professione. Probabilmente viaggiare tutto l’anno non mi darebbe le stesse sensazioni. Rientrati dal loro ultimo viaggio in bici, che li ha portati lungo l’Asia Centrale e fin sulle vetta del Mangling Sar (6050 m) e del Mustagh Ata (7456 m), abbiamo intercettato Valter per conoscere meglio la loro filosofia di viaggio.

Valter, nel racconto delle vostre esperienze parlate di “rilancio della cultura Occitana”. Cosa intendete?

“Tutto nasce dall’attaccamento alla nostra terra. L’Occitania, paese che non conosceva confini, diventa per noi metafora dell’attraversamento dei confini fisici che l’uomo ha inventato. È un modo per riconoscere la nostra identità e allo stesso tempo compararla con quel che c’è nel mondo.

L’identità occitana è un simbolo forte, di appartenenza a un territorio, che per noi significa: andare in giro per il mondo, vedere come funzionano le cose, osservare magnificenze uniche e poi rientrare e sentirsi contenti di essere a casa”.

L’abbiamo detto prima, Caravanserai è un nome d’invenzione. Come nasce e cosa significa?

“È per l’appunto una parola di fantasia che è venuta in mente a Seba prima che iniziassimo a viaggiare insieme. Un paio di viaggi da solo a cui ha voluto dare questo nome. In seguito è poi diventato un modo di viaggiare, quello che ci contraddistingue, una filosofia. Un improbabile esperanto che unisce gli uomini in un’unica lingua, che riconduce agli antichi ricoveri carovanieri in cui genti e culture diverse si incrociavano e conoscevano dando luogo a incanti e proficue contaminazioni”.

Vi si potrebbe definire cicloalpinisti?

“Volendo si. È una cosa antica, sulle nostre montagne lo faceva chi non aveva la macchina (come dimenticare la storia di Agostino ‘Gustin’ Gazzera, tra i tanti. Nda). Noi lo facciamo in un modo più agevolato, per stare con la gente andando a un ritmo più lento”.

Per questo dopo Everest e Cho Oyu hai deciso di lasciar perder gli Ottomila e dedicarti ai viaggi?

“Seba mi riconosce sempre che al posto di continuare a salire su montagne come quelle di Ottomila metri ho preferito dedicarmi a viaggi come questi”.

Tornando al progetto lo definite “cultura ma anche sportivo”, come si amalgamano questi due aspetti?

“Semplicemente perché se pedali per venti o trenta giorni e nel frattempo sali alcune montagne fai anche dell’attività fisica, una prestazione sportiva. Non si tratta però di un record o di una performance.

La parte cultura sta invece in tutto il resto, in quello che cerchiamo di trasmettere. Proviamo a raccontare queste periferie del mondo che abbiamo attraversato. Ovviamente parliamo di noi, della nostra esperienza, ma soprattutto di loro. Di queste genti che vengono considerate solo quando ci sono alluvioni, catastrofi o quando qualcuno decide che quel Paese va bombardato”.

Cosa vi rimane di questi viaggi?

“Tanti episodi, tanti incontri. Tanti momenti camerateschi condivisi insieme. Attimi di felicità e altri di preoccupazione.

Dal 2012 ci è soprattutto rimasta dentro tanta umanità, gente che non aveva nulla. Abbiamo incontrato famiglie sorridenti che avevano meno di quel che noi ci portavamo dietro in bicicletta, sono momenti che fanno riflettere”.

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