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La storia di Gigi Mario, tra l’alpinismo e lo Zen

Ci sono alpinisti e arrampicatori che meritano un’intervista “spot”, al termine di una salita importante. Altri anche a causa dell’età, meritano un’intervista “alla carriera”. Luigi Mario detto Gigi, classe 1938, è monaco Zen e guida alpina. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, le sue vie hanno spinto in avanti le difficoltà superate sul Gran Sasso. Gigi è nato a Roma, abita sulle colline di Orvieto, ha vissuto delle esperienze fondamentali in Giappone. Ma il suo modo di vivere e insegnare la montagna ha influito su molti alpinisti e climber italiani.  

Gigi Mario ha iniziato ad arrampicare a 16 anni, un ragazzo di origine popolare nel mondo borghese della SUCAI Roma di quegli anni. A 23 ha lasciato la sicurezza di un posto in banca per diventare aspirante guida (all’epoca “portatore”) e gestire il rifugio Franchetti. Nel 1967 è andato in Giappone, a insegnare lo sci e a imparare lo Zen. Ha passato cinque anni in un monastero, è tornato in Italia con una moglie giapponese e un nome nuovo, Engaku Taino. Dal 1973 vive in Umbria, in un casale che è anche un monastero Zen. Per cinque anni, Gigi Mario è stato responsabile tecnico dei corsi guida nazionali. Per molti alpinisti del Nord, trovarsi davanti a un istruttore che parlava con accento romano e insegnava anche il Tai Chi e lo Zen è stato uno shock profondo ma utile. Lo incontriamo a Ferentillo, la falesia più nota dell’Umbria, che è nata trent’anni fa grazie a una sua intuizione. Tra i suoi amici e i suoi allievi c’è suo figlio Alvise, che è diventato a sua volta guida alpina e monaco Zen.

 

Quando hai iniziato a scalare?

“Nel 1954, sul Colosseo. Qualche settimana prima gli alpini erano saliti lasciando dei chiodi, non era difficile. E’ arrivato un vigile, ha urlato “scenni, regazzì, che sotto nun ce sta mica er buro!” Il burro in romanesco, con una erre sola…”

Poi hai seguito un iter più normale?

“Certo! Il CAI, la palestra del Morra. Ricordo una gran paura sul camino Jannetta, la prima via della parete”

Poi hai iniziato ad aprire vie nuove. La Gigi al Morra è un capolavoro, poi hai scoperto Gaeta…

“Al Morra c’erano molte linee ancora da fare, non ci sono stati problemi. Ho scoperto Gaeta grazie a una foto de L’Appennino, il bollettino del CAI Roma. Sono andato con Giorgio Schanzer, che aveva la macchina e poteva permettersi di pagare una barca fino all’attacco. Il barcaiolo ha aspettato finché siamo usciti dalla via…”

Quando hai scoperto le Alpi?

“A vent’anni, in Grigna, nel 1958. Romano Merendi mi ha invitato ai Resinelli, e in quegli anni i Ragni di Lecco erano i più forti. Dopo qualche giorno Emilio Caruso, il mio compagno di cordata, mi ha detto “ma tu arrampichi meglio di loro!” E siamo andati a fare le grandi classiche delle Dolomiti”

In quegli anni ti sei dedicato al Gran Sasso, e le tue vie hanno fatto storia. 

“Il Secondo Pilastro del Paretone è stato un’intuizione di Silvio Jovane. Poi sono arrivati lo Spigolo a destra della Crepa sul Corno Piccolo e il Quarto Pilastro, con un diedro di sesto grado, molto difficile”

Contava solo la difficoltà tecnica?

“No, era un alpinismo serio, in un massiccio che allora era davvero remoto. Non c’erano né l’autostrada né il rifugio Franchetti, si partiva dalla funivia di Campo Imperatore, la mattina dopo dovevo essere in banca a Roma. Sul facile e in discesa si correva!”

Sulla Rosy al Monolito, un altro tuo capolavoro, al posto dei chiodi a pressione, hai piantato dei tondini di ferro. Per agganciare la staffa bisognava prima strozzare un cordino…

“Dovevo risparmiare, non potevo permettermi i chiodi a pressione! Qualche anno fa ho tolto i tondini, insieme a mia figlia Lea li ho sostituiti con degli spit. Ora la Rosy è una via sicura”

Poi hai deciso di cambiare vita

“Nel 1962 ho lasciato la banca, ho ottenuto il titolo di portatore (allora non c’era un corso), ho preso in gestione il Franchetti. In un’estate ho guadagnato 30.000 lire, in banca ne prendevo 100.000 al mese”

E allora? 

“Ho cercato di capire che fare della mia vita. Avevo letto Krishnamurti, mi attirava l’Oriente. Nel ’67 sono andato in Giappone a insegnare e a perfezionare lo sci. Un anno dopo sono entrato in un monastero di Kobe. Il resto è storia”

Come funziona oggi Scaramuccia? Come convivono il monastero e la scuola di alpinismo? 

“Quando ho iniziato, più di 40 anni fa, ho cercato di fare come in Giappone, con dei novizi residenti nel monastero, ma in Italia non poteva funzionare. Scaramuccia è una realtà diversa, più libera. Ci sono i corsi di alpinismo e lo Zen, ma nessuno degli allievi è obbligato a passare dall’una all’altra. Molti lo fanno, ma per loro volontà”

Avete rapporti con gli altri Buddhisti italiani?

“Il Tempio Zenshinji di Scaramuccia aderisce all’Unione Buddhista Italiana, che raggruppa una cinquantina di centri. Da qualche tempo l’UBI ha aderito all’8 per mille, e penso proprio di lasciarli. I preti e la religione non devono essere pagati dallo Stato, ma dai loro fedeli!”

Quanto conta per te arrampicare?

“Moltissimo, se posso lo faccio tutti i giorni. Non importa se da primo o da secondo, è la mia vita”

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3 Commenti

  1. Preferisco il casco..in caso di caduta pietra anche modesta, non resterebbe che votarsi alla medicina di pronto soccorso..sperando di non finire nelle mani dei sacerdoti della neurochirugia.

  2. Qualche anno fa realizzammo con Pasquale e Eugenio Iannetti, da un idea di Alessio Marramà, un film sulla prima salita delle Mario-Di Filippo sulla Seconda e Prima Spalla del Corno Piccolo. Era anche la storia di Gigi Mario e Fernando Di FIlippo. La bella intervista di Stefano Ardito a Gigi Mario che mi ha fatto venire voglia di far girare ancora quel video. Credo che sia una bella storia. Se non lo conoscete, con la speranza che vi piaccia, lo trovate a questo link: https://vimeo.com/92021933

    1. Alberto, grazie davvero per aver condiviso questo documento e complimenti per come lo avete realizzato. Bellissimo

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