Alpinismo

Tarcisio Bellò, alpinista per passione. “In montagna cerco amicizia e condivisione”

L’anno scorso la sua salita al Jinnah Peak (6177 m, Pakistan), realizzata con Mara Babolin e Francesco Rota Nodari, lungo una via nuova è stata candidata ai Piolets d’Or. Quest’anno si sta preparando a partire, in compagnia di un giovane ventiduenne alla sua prima esperienza extraeuropea, verso una cima inviolata alta 5800 metri. Per Tarcisio Bellò, vicentino classe  1962, questa è la quindicesima spedizione extraeuropea.

Nel corso della sua vita ha accumulato decine e decine di ripetizioni lungo tutto l’arco alpino. Ben presto arriva però il tempo di lasciare i Quattromila alpini per dedicarsi a qualche meta più esotica. Tarcisio si avvicina così alle più alte montagne del pianeta arrivando a quota Ottomila, su Everest e K2, senza però mai diventare un professionista.

“Quando, nel 2004, sono stato proiettato in mezzo ai più grandi alpinisti italiani ho ben compreso cosa significa scalare a quei livelli. Un po’ mi sono anche sentito a disagio” spiega Bellò. “Non tanto per la parte alpinistica o tecnica, quanto per il mondo alpinistico in se. Quella dell’alpinismo è una realtà basata sull’ego, sulla propria personalità e per farla emergere alcuni sono disposti ad escludere gli altri. Non sono riuscito ad ambientarmi in un mondo dove si corre da soli, senza cerare sinergie, senza condividere con altri scalatori dei grandi progetti”. Non tutti però erano così, Karl Unterkircher era un grandissimo, non solo a livello alpinistico. Poi Nardi, Mondinelli, Confortola. Di alcuni ho potuto apprezzare qualità umane veramente grandi, di altri meno”.

 

Tarcisio, cosa hai potuto imparare confrontandoti con i colossi del Pianeta?

È stata una grande avventura per cui sarò sempre grato ad Agostino Da Polenza, che mi ha offerto l’opportunità di cimentarmi su Everest e K2. Sono tornato con un’idea ben precisa di quel che volevo dalla montagna, dell’alpinismo che volevo perseguire. È stata un’utile esperienza per scegliere il mio percorso successivo.

Torniamo un po’ indietro nel tempo, tu non hai iniziato ad arrampicare da ragazzino, ma quando già eri adulto. Come sei arrivato alla montagna?

Io arrivo da una famiglia che aveva delle malghe in montagna, in Grappa. Fin da piccolo sono stato abituato a salire in alpeggio con le mucche. Andavo a fare il fieno, nel bosco. Le terre alte hanno sempre fatto parte della mia vita, all’alpinismo mi sono però avvicinato in età adulta. Ho iniziato ad arrampicare che avevo ventotto anni con un amico e poi grazie alla sezione CAI di Marostica, dove ho imparato ad affrontare con cognizione di causa roccia e ghiaccio.

Ben presto però le cime di casa iniziano a starti strette e, dopo numerose scalate tra Dolomiti e Alpi Occidentali, ti avvicini all’aria rarefatta. Qual è stata la tua prima esperienza extraeuropea?

Nel 1993 sono andato con mia moglie in Nepal al Lobuje East (6113 m), vicino al laboratorio Piramide e all’Island Peak (6115 m), che ho salito come acclimatazione. Una prima esperienza molto piacevole dove tutto è andato per il meglio e anche le salite si sono svolte senza drammi. L’obiettivo principale, il Lobuje East, l’ho raggiunto in giornata.

Da qui non ti sei più fermato iniziando a costruire spedizioni in Asia e Sud America sempre più frequenti, fino ad arrivare al tuo primo Ottomila. Cosa ti ha spinto verso l’altissima quota?

Ho iniziato a progettare la salita di un Ottomila nemmeno otto anni dopo aver cominciato a scalare e il bello fu che non volevo solamente salire uno di quei colossi, ma volevo farlo per una via nuova.

Qual era il tuo obiettivo?

Lo Shisha Pangma, avevo anche studiato la parete e la via che volevo tracciare. Alla fine però, per colpa di una questione burocratica, ci siamo trovati costretti a ripiegare sul Dhaulagiri. Una bella salita impegnativa, ma non trascendentale. Come me c’era Mario Vielmo.

Tarcisio, all’inizio ci hai detto che dopo la tua esperienza a Ottomila metri (che per la cronaca comprende, oltre al Dhaulagiri, anche l’Everest dal versante tibetano e un tentativo al K2) hai scelto quale alpinismo perseguire. Hai quindi lasciato il mondo dell’altissima quota per…?

Per condividere con altri scalatori dei progetti minori.

Con due figli non me la sentivo più di rischiare eccessivamente e poi volevo aprire un dialogo con la gente dei luoghi visitati. Sono posti in cui andiamo per divertirci e trovo che sia giusto restituire qualcosa a chi vive tutti i giorni quella realtà per noi così esotica.

Inizia così un nuovo capitolo della tua vita dedicato al volontariato, all’aiuto dei popoli che abitano ai piedi delle grandi montagne del Pianeta. Cosa avete fatto per loro?

Abbiamo iniziato nel 2007 con i progetti di aiuto alla popolazione. Il primo intervento ha riguardato la realizzazione di un acquedotto lungo un chilometro in un villaggio nel Nord del Pakistan. Nei due anni successivi l’acqua è poi stata portata in tutte le abitazioni.

La cosa importante, che tengo a sottolineare, di questi progetti sta nel fatto che sono attività d’intervento studiate con la gente del posto, volute dalla gente del posto. Non siamo mai andati con l’idea di imporre qualcosa ma sempre con l’idea di sviluppare un’idea condivisa con gli abitanti.

Oltre all’acquedotto abbiamo poi realizzato un ponte in metallo e, soprattutto, abbiamo avviato il centro alpinistico dedicato a Cristina Castagna nel villaggio di Gothulti, in Pakistan. (Cristina Castagna, classe 1977, è stata una promettente alpinista vicentina, prematuramente scomparsa nel 2009 in seguito a una violenta caduta in discesa dopo aver raggiunto la vetta del Broad Peak, nda)

Dove sta l’importanza di un centro alpinistico ai piedi dei grandi colossi himalayani?

La speranza è quella di far rimanere i giovani nelle valli, di creare delle guide alpine locali, che al momento in Pakistan non esistono. Grazie a queste figure professionali, operanti sulle montagne di casa, si può creare un indotto sul territorio evitando l’abbandono delle aree rurali da parte dei giovani. Se si abbandona un luogo, il futuro di quelle terre è segnato per sempre.

Tarcisio, ancora una dovuta precisazione. Tu non sei mai stato un alpinista per professione, come sei riuscito a far tutto quel che hai fatto?

Devo ringraziare mia moglie e la mia famiglia. Adesso faccio il bibliotecario, ma nel corso degli anni ho fatto tanti lavori. Dalla maggior parte mi sono dovuto licenziare per inseguire questa passione.

 

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4 Commenti

  1. Tarcisio un grande alpinista. Un grande uomo. Sempre presente per aiutare gli altri e ricordare gli amici scomparsi. Sempre avanti a battere la pista, a preparare i campi alti, sciogliere la neve … tutte cose che poi gli altri suoi compagni di scalata sfruttano … ma lui è generoso e non si tira mai indietro. E non importa se sull’Everest ha usato l’ossigeno perché comunque ha lavorato per gli altri molto più famosi di lui … che lo hanno sfruttato come sempre … ma Tarcisio é umile e si mette a disposizione di tutti, senza chiedere mai nulla in cambio …

  2. Su MONTAGNA TV…
    Ringrazio, per l’articolo Gian Luca Gasca che ha ben interpretato lo spirito con cui frequento da un po’ di anni la montagna.
    Una piccola correzione a un refuso, Cristina Castagna è caduta dal Broad Peak nel 2009 non nel 2004.
    Poi vorrei approfondire un attimo la maturazione di un approccio con maggior empatia verso i compagni di spedizione e le genti locali (tra cui moltissimi amici) dovuta all’esperienza della doppia spedizione Everest e K2. In quell’occasione nel 2004, il cinquantenario della scalata di Lacedelli e Compagnoni, fra più di 30 componenti della spedizione non tutto è filato liscio e le antipatie-simpatie sono in alcune occasioni affiorate con durezza specie nei giorni della vetta del K2. Fatti noti a tutti quelli che erano presenti ai campi base e in parte anche descritti sul libro Quattro’ mesi in cima al mondo’ edito da Rizzoli.
    Detto che ciascuno dei partecipanti nel frattempo può aver fatto un percorso pari al mio ed aver maturato un diverso modo di relazionarsi agli altri, per me è stata comunque una esperienza utile per capire quale fosse l’unico vero modo con cui volevo andare in montagna.
    Cioè dividere alla pari con gli altri partecipanti sforzi, fatiche e soprattutto soddisfazioni per i risultati ottenuti perché il più bel successo oltre che ritornare vivi, è tornare più amici di prima, sentendosi tutti parte di una comunità ampia, chiamata mondo, a cui ciascuno sarebbe tenuto a fare il massimo per renderlo migliore.
    Non si ringrazierà mai abbastanza le montagne, i compagni di cordata, le famiglie e tutti quelli che hanno aiutato perché nulla di ciò che è stato fatto sarebbe stato possibile senza il loro, a volte invisibile, ma sempre straordinario supporto.
    Un fortissimo abbraccio
    Tarcisio

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