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Quando il talento non fa rumore: storia di un gruppo di amici sciatori

Testo di Veronica Balocco, giornalista per professione, scrittrice per passione, viaggiatrice e sognatrice per deformazione genetica. Potete leggere i suoi articoli ed racconti delle sue esperienze sul sul blog www.verofinoinfondo.it

 

 

La prima volta che ha fatto scialpinismo ha noleggiato le pelli a Cantù, la sua città, e ha sceso il canale Gervasutti alla Tour Ronde. Così, tanto per gradire. In casa all’epoca aveva solo attrezzature da freeride: quello della polvere e dei palettoni, mica delle salite con i ramponi ai piedi. Ma gli anni passati a provare e riprovare la sciata, a migliorare la tecnica, a spingersi sempre un po’ più in là erano stati talmente tanti, prima di quel momento, che scivolare nel vuoto di un muro verticale, pur senza sapere nulla di pelli e scalate, è venuto naturale.

È stato allora che Davide Terraneo, classe 1987, laurea in ingegneria civile nel cassetto, ha deciso di vendere gli sci di sempre e convertirsi alla religione delle pareti nord. Un credo terrificante, il più cattivo del mondo sciistico. Non sapeva che nel giro di un soffio di vento avrebbe inciso le nevi delle linee più note e ardite. Non poteva sapere che per lui sarebbe stato tremendamente facile: “Ho imparato praticamente da solo, nessuno mi ha mai portato in giro per insegnarmi. Non ho mai fatto corsi del Cai. Semplicemente, ce l’avevo dentro”. Bastava solo stappare.

Ma le bottiglie di champagne, si sa, non vanno mai gustate da soli. E non ci è voluto molto perché sul tavolo comparisse il calice di un altro spirito libero. Mattia Varchetti, operaio forestale del 1988, di Castano Primo. Nessuno dei due montanaro di nascita, entrambi innamorati della stessa donna. La montagna più selvaggia. “Ci siamo conosciuti su un forum per sciatori – racconta Davide -. Lui era interessato alla mia discesa dal Gervasutti e così abbiamo deciso di incontrarci. Se fossimo andati d’accordo, magari avremmo anche iniziato a fare qualcosa insieme”. Si scriveva così la prima riga di una storia magica. Sportivamente eccezionale. Ma incredibilmente silenziosa. “Nel giugno 2010 siamo andati per la prima volta in montagna insieme – ricorda “Terra” -. Al rifugio Torino trasmettevano la partita dei Mondiali. Lui l’ascoltava con le cuffiette disteso sul piano superiore del nostro letto a castello, io di sotto ripassavo gli appunti per un esame. Il mattino dopo ci siamo portati a casa la nostra prima parete: la Nord della Tour Ronde. Non avevamo notizie sulle condizioni perché la funivia era ferma da un mese. Non avevamo neppure picche e ramponi per la goulotte, qualche amico di buon cuore ci aveva prestato tutto. Ma alla fine la giornata è stata perfetta. Una discesa che ricorderò sempre”.

Da lì in poi, una crescita continua. Una scalata infinita. L’arrivo degli amici Pietro Marzorati, Andrea Bormida, Cristian Botta. E poi Matteo Tagliabue, prima di quel maledetto Alpamayo che si sarebbe portato via i suoi sogni e il suo talento. “E’ proprio con lui, e con Mattia, che ho vissuto la vera svolta della mia storia sciistica – spiega Davide -. Era il 2013 e il nostro desiderio era scendere la Nord del Disgrazia, una linea che da trent’anni non era mai stata ripetuta. Siamo partiti così, senza sapere bene se l’avremmo trovata nelle condizioni giuste. Ci siamo messi in macchina dopo il lavoro e siamo arrivati al bivacco Oggioni a mezzanotte, sotto la luna piena. Salendo ho anche perso un rampone… ero quasi contento perché non me la sentivo tanto di sciare il giorno dopo. Poi l’ho recuperato e alla fine è andata bene così”. Alla fine, a 30 anni dalla prima traccia, in una giornata infinita e sfiancate, tre giovani hanno infilato una cartolina nel grande libro delle discese. Cinquantacinque gradi costanti, a tratti qualcosa in più, per 500 metri di lunghezza, con una goulotte mediana ghiacciata e verticale. Per loro, tutto sommato, quasi una passeggiata.

Lì abbiamo definitivamente capito che avevamo le potenzialità per fare cose sempre più estreme. Per alzare i nostri limiti”, mi dice. Questione di autostima. O forse di semplice e puro talento. Solo che per una volta, stranamente per un mondo chiacchierone, i riflettori restavano spenti. Sud del Gran Paradiso, Nord-est della Grivola. E poi la Nord del Lyskamm, sempre con strumenti pesanti attaccati agli scarponi. Dynastar 8800, Mythic Rider/light e scarponi da freeride. Pezzi seri da discesa, per chi sui quadricipiti sa di poter contare. “Eppure sui social preferivamo non esporci – racconta Davide, che oggi lavora per il sito skiplace.it, di cui è cofondatore -. Lo vedevamo un po’ come il regno di quelli che fanno vedere quel che non sono. Io amo la cultura del gesto che sto compiendo, dell’ambiente che affronto. È un approccio un po’ diverso”. E così le discese del gruppo sono diventate patrimonio di tutti solo pian piano, con una foto qui e una là, senza troppe parole e senza troppi “io”. “Siamo un po’ gli ideali seguaci dei nostri personali pionieri: giovani come noi che erano stati capaci di fare quel che noi sognavamo”. I ragazzi di snowhow.it, Capozzi, Civra Dano, Sesan Sodano, Negri, Pognante, Pitet, Pandolfi… la mente non va ai tempi di Saudan, De Benedetti o Valeruz, monumentali ma lontani ormai nella storia, e resta invece al presente. “Come loro amiamo quel che pochi comprendono – mi spiega ancora Terra -. Faticare, patire il freddo, portare pesi a spalla, alzarsi nel cuore della notte solo per inseguire una linea”.

Sarà una storia lunga. Fatta di tanti puntini da unire. E solo nel 2014, con l’addio a Matteo, una linea mancherà all’appello. “Per noi è stato un momento molto difficile – racconta Terraneo -. E ne siamo usciti solo omaggiando la sua memoria con quello che lui avrebbe voluto facessimo”. Nord del Gran Paradiso, della Lenzspitze, Nord Est della Vincent, sud della Grandes Jorasses, Nord est della Weissmiess e poi sono pagine di storia sempre più recente.

E ora, con un silenzioso curriculum nel cassetto, lo sguardo spazia altrove. Forse non più solo sulle Alpi. Di certo ovunque gli sci si siano già messi alla prova ma nessuno abbia mai tentato ripetizioni. Così, per vedere se ce la si può fare ancora. Il segreto di tanta passione? Curare la tecnica sino alla maniacalità e non smettere mai di crederci. “L’unica variabile resta la natura – chiude Davide -. È lei alla fine a decidere se e quando le condizioni siano quelle giuste”. E visto che del gruppo nessuno vive vicino alle montagne, pronto a saltare sul verticale alla prima occasione, la sfida resta ogni volta un’incognita ancora più difficile da pianificare. Ma questo, dicono, è proprio il bello della vita.

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3 Commenti

  1. “ci siamo portati a casa la nostra prima parete: la Nord della Tour Ronde..”

    ” poi Matteo Tagliabue, prima di quel maledetto Alpamayo che si sarebbe portato via i suoi sogni e il suo talento”

    è la mentalità del portarsi a casa che non va bene caro amico
    La montagna non è il paese di Heidi, ne quello dei Balocchi..

  2. Nè primi nè ultimi anzi..senza nulla togliere alle imprese profuse dai ragazzi, esistono ancora alpinisti silenziosi ai più.

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