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I ghiacciai himalayani sono condannati? Ne parliamo con Claudio Smiraglia

Un terzo dei ghiacciai himalayani è destinato a scomparire entro il 2100, è quello che afferma una ricerca condotta dall’International Centre for Integrated Mountain Development (Icimod) che ha coinvolto 500 ricercatori per oltre cinque anni. Un lavoro mastodontico mirato a raccontare effetti e conseguenze dei mutamenti climatici in atto.

Quello raccontato dal report pubblicato è un resoconto che lascia poche speranze. Infatti, anche riducendo le emissioni di gas serra, un terzo dei ghiacciai è comunque destinata alla fusione mentre, se non dovessimo riuscire nel taglio alle sostanze inquinanti, a scomparire sarebbero i due terzi dei ghiacci himalayani. Sarebbero due miliardi le persone coinvolte dalla perdita di buona parte del terzo deposito di acqua dolce al mondo e gli effetti sarebbero potenzialmente disastrosi. Cerchiamo però di capire meglio i risultati di questa ricerca interrogando il professore Claudio Smiraglia, climatologo e glaciologo già presidente del Comitato Glaciologico Italiano e del Comitato Scientifico del CAI nonché componente del Comitato Scientifico Ev-K2-CNR.

 

Claudio, partiamo subito con una domanda secca: è vero che i ghiacciai himalayani sono condannati?

Io non userei questo termine. Secondo me bisognerebbe rifuggire da queste terminologie di uso giornalistico che certamente colpiscono l’opinione pubblica, ma che alterano in parte la realtà dandoci un quadro distorto. Cosa significa ghiacciaio condannato? Diciamo piuttosto che i ghiacci dell’Himalaya, in cui coprendo tutto il settore che va dal Pamir giù attraverso il Karakorum fino all’Himalaya, stanno subendo gli effetti di questa fase climatica particolare, esattamente come tutti i ghiacciai del mondo.

Entrando nel dettaglio di quella che è la discussione degli ultimi giorni, è vero che questi raggiungeranno il punto di non ritorno entro il 2100?

I dati dicono questo, anche se in realtà va sempre precisato che noi parliamo di scenari. Non voglio fare un discorso controtendenza, ma credo sia importante evitare di dire cose come “si prevede che nel 2100 succederà…”. Noi non possiamo parlare di previsioni. Le previsioni sono quelle meteorologiche e ci sanno dire, con una certa precisione, il tempo che farà domani o dopodomani al massimo. Nel nostro caso si tratta di possibili scenari che si dipanano in decine se non centinaia di anni.

Come vengono delineati questi scenari?

Ponendosi delle domande basate su delle ipotesi. Per esempio io dico che tra cinquanta anni la concentrazione di gas serra sarà aumentata di X, che la temperatura sarà aumentata di Y e che la tipologia e la frequenza della precipitazioni si saranno modificate. Sapendo questo mi domando: cosa succederà ai ghiacciai? Per fare un altro esempio posso porre l’ipotesi che tra 100 anni non ci sarà più genere umano e da qui andare a immaginare lo scenario possibile.

Come fate a delineare questi scenari partendo da queste ipotesi?

Grazie al fatto che conosciamo i ghiacciai e sappiamo come reagiscono ad aumenti di temperatura o a variazioni delle precipitazioni. Avendo questa base di partenza possono creare uno scenario a 30 anni, a 50 anni e a 100 anni. Ovviamente questa è una spiegazione ridotta ai minimi termini.

Il ghiacciaio del Baltoro coperto di detriti. Sullo sfondo la Torre di Trango.
Il ghiacciaio del Baltoro coperto di detriti. Sullo sfondo la Torre di Trango. Foto Gian Luca Gasca

Quanto sono attendibili i dati dell’Icimod?

Il rapporto di cui stiamo parlando è stato realizzato coinvolgendo i migliori studiosi a livello mondiale. Inoltre, leggendolo, si notano scenari a tre distanze temporali. La ricerca parla di cambi immediati (entro il 2030), poi di cambiamenti a medio termine (entro il 2050) e infine di effetti sul lungo termine (entro il 2100). Si tratta di dati attendibili, sempre che lo scenario climatico su cui si basano si sviluppi effettivamente come ipotizzato.

Quando si tratta di ipotizzare il futuro la scienza presenta sempre delle incertezze, questo non vuol però dire che dobbiamo stare con le mani in mano. Dobbiamo invece studiare sempre di più.

Nel corso della tua vita hai realizzato molti viaggi in Himalaya e Karakorum. Questi cambiamenti sono qualcosa di cui ti rendi conto anche a occhio nudo, oppure sono visibili solo guardando i dati?

Sicuramente lo tocchi con mano, soprattutto se vai più volte negli stessi luoghi. Io ho realizzato viaggio in Karakorum dall’inizio degli anni ’80 fino al 2001 e, di fatto, ho visto direttamente gli effetti dei cambiamenti climatici.

Una cosa che va però sottolineata, che esce da questo rapporto dell’Icimod, è che parlare dire Himalaya è come dire qualcosa di estremamente generico. In Himalaya ci sono realtà geografiche, climatiche, geologiche estremamente diverse. Se poi estendiamo questo concetto dal Pamir all’Himalaya cinese allora le differenze si accentuano ancora di più. Il Karakorum per esempio ha un comportamento molto diverso, in relazione ai cambiamenti climatici, rispetto all’Himalaya centrale o a quello orientale. Questo è dovuto al fatto che il monsone influenza in modo diverso il clima di ogni settore montuoso. Per farla breve bisogna ricordarsi che ogni realtà regionale è una realtà a se stante.

Quali sono i fenomeni visibili anche a occhio nudo?

C’è un progetto, di cui seguo la parte scientifica, che mostra chiaramente le enormi differenze che si possono riscontrare anche con un semplice sguardo. Sto parlando del progetto fotografico di Fabiano Ventura in cui vengono messi a confronto i ghiacciai grazie a delle foto storiche (risalenti a fine ‘800 o ai primi del ‘900) con delle foto attuali. La differenza è incredibile e salta subito all’occhio l’arretramento del fronte del ghiacciaio, l’abbassamento dello spessore e la riduzione delle coperture glacio-nivali sulle pareti che rinserrano i ghiacciai. Oltre a questo poi ci sono alcuni aspetti, che notano tutti gli escursionisti e gli alpinisti, legati alla modificazione della superficie del ghiacciaio.

Quindi sono corrette anche le osservazioni rilasciate in questi giorni da alpinisti come Simone Moro o Nives Meroi che, su varie testate hanno affermato che in Himalaya si vedono più rocce che neve che dove il ghiaccio se ne va aumentano i pericoli…

Hanno perfettamente ragione. Dove il ghiaccio scompare tutto diventa meno stabile. Si tratta di un fenomeno, seppur con dimensioni enormemente diverse, che sta avvenendo anche sulle Alpi.

Un’ultima domanda: se la tendenza dovesse essere quella pronosticata dall’Icimod, quali sarebbero le conseguenze?

Sarebbero di tipo diverso. Una, forse meno importante perché coinvolge meno persone, sarebbe il già citato aumento di pericolosità per alpinisti ed escursionisti. L’ambiente andrebbe (e va, nda) affrontato con una filosofia di maggior conoscenza e maggior attenzione.

Oltre a questo ci saranno poi tutta una serie di effetti a catena, uno sarà quello legato ai cosiddetti GLOF (glacial lake outburst flood): laghi glaciali che, collassando di colpo, daranno origine ad alluvioni potenzialmente disastrose. Ci saranno (e ci sono già stati) parecchi episodi, soprattutto in Himalaya.

Invece, scendendo di quota, e andando avanti con la scala temporale, si avranno effetti sulle popolazioni delle valli. Le principali complicazioni saranno, per le popolazione di valle, legate alla mancanza di acqua da fusione glaciale ma questo è un tema che va ancora approfondito e ben studiato.

 

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