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Nives Meroi e Romano Benet, dopo gli Ottomila – di Stefano Ardito

L’Annapurna è una brutta gatta da pelare. Nel 2012, Nives Meroi e Romano Benet non erano riusciti nemmeno ad attaccare la parete Sud a causa del caldo, delle slavine e dei crolli di seracchi. Poi, sul Kangchenjunga, Romano si era sentito male a 7200 metri di quota. 

La rinuncia a quella vetta, la grave malattia (un’aplasia midollare severa) diagnosticata a Udine, i mesi di isolamento, i due trapianti di midollo, infine la guarigione e il ritorno ad alta quota sono stati raccontati da Nives in Non ti farò aspettare, pubblicato nel 2015 da Rizzoli.

Nives sul Makalu, archivio Benet-Meroi

Poi, dopo aver toccato la cima del Kangch, ai due “ragazzi terribili” di Tarvisio mancava solo l’Annapurna. Sono riusciti a salirlo un anno e mezzo fa, nella primavera del 2017, dal versante settentrionale, quello dei primi salitori del 1950. 

E’ stata una spedizione-odissea, per pendii di neve e di ghiaccio ripidi e sempre pronti a staccarsi. Poi sono arrivati l’abbraccio sulla vetta del quattordicesimo e ultimo ottomila, i festeggiamenti a Kathmandu e in Friuli, le conferenze in tutta Italia. 

Tra qualche settimana, sarà ancora Rizzoli a pubblicare il nuovo libro di Nives, dedicato (guarda un po’…) all’Annapurna. E poi, dopo la collezione degli ottomila, arriva il momento per pensare ai progetti. 

 

La vittoria sugli ottomila vi ha tolto la voglia di montagna? Continuate ad andarci?

Nives Meroi. Certo che sì! Viviamo in montagna, ai piedi delle Alpi Giulie, e ce le godiamo in tutte le stagioni. Arrampicata sportiva e alpinismo in estate, scialpinismo e cascate di ghiaccio d’inverno.     

Le vostre foto e i vostri video sull’Annapurna mostrano una montagna pericolosa, molto più difficile di quando l’hanno salita Maurice Herzog e Louis Lachenal.

Romano Benet. Certamente! I pendii del ghiacciaio hanno lasciato il posto a seraccate, a muri e pendii di roccia scoperta. Noi abbiamo tentato di passare più a sinistra, sulla Via dei Tedeschi, poi siamo tornati a destra nel grande pendio. 

Ricordiamo la spedizione del 1950 per i terribili congelamenti e la dolorosa discesa di Lachenal e di Herzog. Invece dovremmo pensare alle difficoltà della via e alla forza dei quegli alpinisti, da Lionel Terray a Gaston Rébuffat. E’ possibile che in futuro quel versante diventi impossibile?

RB. I francesi erano certamente forti, il versante è diventato molto più pericoloso. Cosa succederà in futuro non posso saperlo, ma è possibile che da lì l’Annapurna non possa più essere salito.      

Quando siete in Himalaya, Romano è il capocordata. In Italia i media cercano soprattutto Nives. Una ricetta che potrebbe mandare all’aria molte coppie…

NM. Lo sappiamo, riusciamo a non farlo pesare e continuiamo a stare insieme, in montagna e nella vita. Romano è un capocordata straordinario, lo sa, non ha bisogno che qualcuno glielo ricordi Al K2, nel 2006, a un certo punto ha lasciato la via più breve per aggirare un pendio di neve. Due giorni dopo quel pendio si è staccato, e la slavina ha ucciso degli alpinisti russi.

Se Romano è il capocordata in Himalaya, qual è il ruolo di Nives?

NM. Faccio la capocordata in città e nelle nostre serate. Sono la comunicatrice, la soubrette attempata. 

Dopo il libro sul Kangchenjunga e la malattia di Romano, Nives ne ha scritto uno sul Sinai, insieme al teologo e giornalista Vito Mancuso. Perché? 

NM. Curiosità, voglia di raccontare… Mettere insieme un racconto di viaggio e il saggio di un teologo mi sembrava un’idea nuova. Tra gli orizzonti della montagna e quelli del deserto c’è una profonda analogia.

Sull’Everest, nella scorsa primavera, c’erano più di 300 alpinisti-clienti. Tirati su dagli sherpa, con maschere e respiratori a ossigeno, con tariffe intorno ai 50.000 euro a testa. Che ne pensate? 

RB. L’alpinismo commerciale dell’Everest non ha niente a che fare con l’alpinismo-spettacolo dei personaggi più noti, e con l’alpinismo di ricerca che si fa ancora sulle Alpi e sulle montagne del mondo. 

L’alpinismo è pericoloso e faticoso, molti giovani preferiscono l’arrampicata sportiva…

NM. Anche noi facciamo arrampicata sportiva, anche se d’inverno da Tarvisio dobbiamo scendere fino al Carso. Ma gli alpinisti giovani ci sono, e fanno cose straordinarie, basta pensare a David Lama. 

Nives e Romano all’Aquila, foto di Stefano Ardito

Nelle spedizioni non usate né bombole di ossigeno, né portatori d’alta quota. Criticate chi li usa?

NM. No, ma dopo ogni salita ognuno deve dire come l’ha fatta. Credo che respiratori e bombole rendano l’alpinismo più pericoloso. Quando l’ossigeno finisce si muore.   

Il vostro è un alpinismo povero? 

RB. No, è un alpinismo di rinuncia, che è un valore fondamentale nella vita.

Nives ha 57 anni, Romano 56. Come cambia, con il passare degli anni, l’adattamento dell’organismo all’alta quota?

NM. Negli anni la forza esplosiva diminuisce, ma la resistenza rimane. E si impara ad ascoltare il proprio corpo, che ci dice se continuare a salire o scendere. 

Non usate un metodo scientifico?

NM. Nelle prime spedizioni mia sorella, fisiologa, ci ha riempito di sensori e di test. Ora ci teniamo d’occhio a vicenda. Molti alpinisti che sono morti in Himalaya non si erano accorti di star male. Andare in coppia è importante anche per questo.

Oggi vanno di moda le spedizioni invernali. Proseguiranno, o finiranno dopo che verrà salito il K2? Voi ci andreste? 

NM. Nel 2008 abbiamo tentato il Makalu d’inverno, è stata un’esperienza importante. Le finestre di bel tempo sono poche e brevissime, per riuscire bisogna stare lì tutto l’inverno. Questo presuppone un grosso budget, un campo-base con tende riscaldate. Se mi invitassero andrei di corsa!

Avete altri progetti in Himalaya? Dove andrete dopo la collezione degli ottomila?

RB. L’Himalaya è pieno di belle montagne! Ci piacerebbe mettere il naso in Sikkim, sul versante orientale del Kangchenjunga. E’ una zona selvaggia e bellissima, lo Zemu Peak è uno degli ultimi settemila inviolati. 

Siete appena stati al Festival della Montagna dell’Aquila, a due passi dal centro storico e dai cantieri della ricostruzione. Voi venite dal Friuli, che ha sofferto per il terremoto del 1976. Che effetto vi hanno fatto la città e il Gran Sasso? 

NM. Non conosciamo il Gran Sasso e ci dispiace. Ma tra il Friuli e l’Abruzzo c’è una solidarietà creata dal terremoto. 

RB. In Abruzzo c’è una situazione complicata, non mi sento di dare giudizi. Ma so che dopo il dolore arriva la ricostruzione, e che i rapporti tra le persone diventano più veri. Dopo il terremoto il Friuli è diventato un luogo migliore per vivere. 

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5 Commenti

  1. Per questi ed altri alpinisti intervistati , manca sempre un accenno alle eventuali attivita’ che adottano per “sbarcare il lunario”.
    Ricordando vecchie interviste si sa che alcuni fanno i consulenti materiali, altri hanno la gestione di un negozio, di agenzia viaggi e spedizioni altri sono Guide e maestridi sci, altri persino professori alla Scuola media o suepriore o universita’..gestori di rifugi ,alberghetti o ristoranti….cuochi…insomma un aspetto non avventuroso della vita ordinaria …tra una scalata e l’altra .

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