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Ladakh: si è svolta la gara di MTB più alta al mondo. C’era anche Montagna.tv

Torniamo a parlare di Mirco Robaldo che, dopo essersi cimentato in una lunga e solitaria pedalata lungo la Manali-Leh, la leggendaria strada per il Nord che per circa 500 chilometri attraversa paesaggi e passi tra i più alti del pianeta, ha deciso di impegnarsi in una faticosa ma spettacolare gara di mountain bike. Dopo aver percorso paesaggi unici e aver vissuto una delle esperienze più vere che l’India possa offrire, dopo averla scoperta in lentezza colpo sul pedale dopo colpo sul pedale, è arrivato al capolinea con ancora voglia di andare avanti nella scoperta di quest’India dalle mille sfumature. Provvidenziale è stato allora l’incontro con l’Associazione Sportiva Dilettantistica WWB, capitanata dall’italiano Stefano Merzi,che organizza la Himalayan Highest MTB Race – Ladakh.

 

Mirco, questa è stata la tua prima gara di mountain bike e hai scelto l’Himalaya…

Come prima gara non potevo scegliere di meglio. È stato un percorso durissimo sia dal punto di vista fisico che per quanto riguarda l’acclimatazione. La quota più bassa da cui siamo partiti è stata di 3200 metri con picchi a 5300-5400. Diciamo che nei giorni di gara siamo rimasti in media sui 4000 metri di quota.

Una competizione dura…

Si, anche se parlare di competizione, come qualcuno dei partecipanti ha proposto, forse non è propriamente corretto. La si potrebbe quasi definire una “super-randonnée” a cronometro anche se l’organizzazione ha predisposto tutto quel che una gara prevede. C’erano cronometraggi, premiazioni di tappa, sfide di categoria, premi finali e maglie “finisher”.

E allora perché non la si può definire competizione o gara?

Il vero problema sta nei parametri organizzativi indiani che non sono paragonabili ai nostri standard occidentali dove tutto funziona alla perfezione e gli atleti si devono unicamente concentrare sulla prestazione fisica. Qui alcune cose sono lasciate un po’ al caso, soprattutto per quanto riguarda sicurezza e comunicazione (cosa che in Himalaya è abbastanza complicata). Difetti di progettazione, ma anche il vero fascino di una gara in Ladakh.

Com’era il percorso?

Si trattava di tappe che andavano dai 75 ai 100 chilometri con dislivelli tra gli 800 e i 2100 metri. Prestazioni che alle quote himalayane non erano proprio bazzecole.

La maggior parte del tracciato è stata su asfaltato, anche se abbiamo avuto alcune tappe con l’80 percento di sterrato che ci hanno messo a durissima prova. La strada poi, per esigenze militari in un’area di confine molto calda e militarizzata, non è chiusa alla circolazione quindi ci siamo dovuti rapportare con camion, pulmini, auto e convogli militari che andavano e venivano in tutte le direzioni. Respirare, in mezzo a questo traffico irregolare, era quasi impossibile. Ogni mezzo alzava nuvole di polvere e lasciava nell’aria il tremendo puzzo dei gas di scarico da euro meno 5.

Perché hai deciso di partecipare a questa gara?

Era dal 2010 che pensavo di venire in Ladakh a fare qualche salita alpinistica su cime di 6000 metri. Avevo già previsto e organizzato tutto, poi purtroppo la famosa alluvione di quell’agosto mi ha costretto ad annullare il viaggio tre giorni prima della partenza.

Dal 2010 non ci sono poi più tornato sopra fin quando l’anno scorso, a causa di un problema alla cartilagine del ginocchio i medici mi han consigliato di pedalare e così ho fatto. Ho cercato di unire la bici alla mia passione per l’alta quota riscoprendo il Ladakh in una forma diversa: dall’alpinismo alle due ruote.

Si, ma come sei finito a gareggiare su passi di 5000 metri di quota?

Con un incredibile stravolgimento di programma. All’inizio l’idea era quella di percorrere il solitaria la Manali-Leh e poi proseguire fino a Srinagar, capitale del Jammu e Kashmir, al confine con il Pakistan. Nel corso dell’organizzazione del viaggio però ho incontrato Daniele di Dama Sportswear, che sta preparando una spedizione scientifica con Admo al campo base dell’Everest e dove con Agostino Da Polenza stiamo cercando di mettergli a disposizione il laboratorio piramide dell’EvK2CNR per delle analisi in quota. Quando l’ho incontrato sono stato subito influenzato dai suoi racconti. Storie entusiaste sugli accadimenti di questa gara a cui aveva partecipato l’anno prima in tandem con un atleta ipovedente. Da qui l’idea di partecipare, con la speranza di incontrare qualche altro appassionato un po’ stravagante come me.

Chi hai incontrato durante la manifestazione?

A partire da Stefano Merzi, simpaticissimo organizzatore che da quattro anni si impegna per realizzare la gara, ho fatto parte di un gruppo fantastico. Per dieci giorni ho vissuto in una famiglia dove un sano spirito agonistico si è alternato a un clima di spensieratezza e complicità. Qualità che sono uscite grazie alla vita semplice e a stretto contatto fatta nei campi tendati itineranti che via via i ragazzi dello staff di Extreme Adventure, dei fratelli Tsewang Diorjey e Rigzin Yangjor, allestivano sul percorso di gara. Posti dove si arrivava ogni giorno e da dove si ripartiva la mattina dopo.

Ho avuto il piacere di condividere questa esperienza con atleti di tutti i livelli: una coppia di mountainbiker dove lui è finisher del Mezzalama e lei del 4k; un’altra coppia che ha partecipato alle più svariate gare di mountain bike in giro per il mondo in equipaggio tandem MTB, e con che numeri; campionesse di gran fondo senza esperienza di MTB; donne alla soglia dei 60 anni che ti facevano vedere i sorci verdi sia in salita che in discesa, altri biker di oltre 50 anni che vedevo solo all’ arrivo sempre pronti ad un abbraccio; e ancora gli atleti indiani con le loro buffe strategie di gara, ma sempre sul podio.

Oltre a loro poi tre storie sorprendenti: quella di Manuel Marson, vicecampione italiano di triathlon paralimpico che ha partecipato come copilota dell’unico tandem presente; e la vicenda di Daniele Santini con sua moglie Stefania Cogo, lui ambassador di Admo a cui un prelievo di midollo qualche anno fa ha salvato la vita, lei triatleta senza alcuna esperienza di mountain bike. In entrambi i casi sono stati un esempio di forza e insegnamento per tutto il gruppo.

 

Quali sono stati i momenti più duri?

Fisicamente e mentalmente già solo pedalare a queste quote è pesante, come anche il recupero. Se però dovessi scegliere un momento veramente difficile, direi l’ultima tappa. La cronoscalata del Khardung La che credo sia stata la tappa più dura per tutti. Eravamo abbastanza vicini al limite e ci aspettavano ancora 2100 metri di dislivello da compiere in circa 50 chilometri dai 3400 metri a 5500 circa del passo.

Ricordo che i primi 24 chilometri sono andati poi, nel giro di 5 minuti, sono saltato sia fisicamente che mentalmente. Anche se le gambe giravano ancora non riuscivo più a stare in sella perché il dolore al sedere era diventato insopportabile e i restanti 25 chilometri sono diventati un incubo. Ho pedalato, spinto la bici, continuavo a fermarmi chiedendomi se mai sarei arrivato al passo che vedevo sempre lì, sopra di me, o se avrei aspettato il “camion scopa” ritirandomi. Alla fine però ci sono riuscito, tirando letteralmente la bici sotto al traguardo dopo un tempo interminabile.

… Quelli più belli?

Questi sono stati di gran lunga maggiori e più intensi di quelli duri. Il solo pedalare immersi in paesaggi come questi ti trasmette una sensazione magica: qui ci sono dimensioni che noi sulle Alpi ci sogniamo. Ci sono spazi immensi, valli grandiose, colori che variano con l’inclinazione del sole, stellate notturne da far venire i brividi. Anche gli arrivi di tappa, dove arrivavo stremato ed esausto, erano qualcosa di meraviglioso (ride).

Il momento più emozionante è stato però quando ci siamo fermati alla Nomadic Residential School di Puga, una scuola riservata ai figli dei nomadi ladakhi a cui abbiamo fatto visita per conoscere gli alunni, compresi tra i 3-4 anni e i 12-13 anni, a cui sono stati donati capi di abbigliamento e accessori precedentemente radunati in Italia. È stato un incontro “inaspettato” dal punto di vista emotivo, un momento che ha commesso un po’ tutti. Io avevo le lacrime agli occhi al solo vedere quanto i bambini si divertissero e partecipassero ai giochi che sono stati organizzati.

La distribuzione dei materiali invece?

È stata un momento di riflessione. Nessun bambino si lamentava di quel che gli veniva dato, nessuno guardava al valore economico del vestiario o dell’oggetto. Tutti erano entusiasti e felici e nessuno confrontava il valore dei suoi oggetti con quelli dei compagni. Discutendone dopo, a cena, a molti di noi è venuto il pensiero di cosa sarebbe successo nella stessa situazione in una scuola delle nostre. Va beh, lasciamo stare…

Quando sei partito ti aspettavi tutto questo?

L’aspettativa c’era, ma la realtà è andata molto oltre. L’umanità vissuta con gli altri partecipanti, con gli organizzatori, con i ragazzi indiani e nepalesi dello staff, con i bambini è un bagaglio immenso da riportare a casa. È qualcosa che ti riporti e cerchi di tenere ben stretto addosso.

Se poi anneghiamo tutto questo vissuto in un Paese come l’India, con le sue contraddizioni e i suoi paradossi, beh allora hai veramente vissuto un’esperienza unica accarezzando la sfumatura più intensa che un Paese può darti.

Ultima domanda, materiali usati: cicloturismo e gara non sono proprio la stessa cosa…

La prima cosa che ho dovuto valutare è stata la bici. Ho scelto una bici solida in grado di reggere sia il viaggio da Manali a Leh che la gara. Nelle scelta mi ha aiutato Isaia Spinelli di Bianchi con cui ho dialogato arrivando a propendere per una MTB Kuma 29 pollici in alluminio con predisposizione posteriore al portaborse fisso che ho usato, un Tubus.

Questa bici mi ha dato un’ottima stabilità nei tratti sterrati sulla Manali-Leh, nonostante il mio pesante bagaglio posteriore, appesantendomi però in gara. Tutto allenamento (ride).

Al tutto, grazie a Simone Bolla della Montalbetti, ho aggiunto manopole comprensive di corna, per avere la possibilità di cambiare impugnatura durante il viaggio, e pedali con doppio utilizzo standard da una parte e attacco spd dall’altra il tutto della Ergotech.

Per il resto ho utilizzato completi da bici da strada della Montura, sponsor tecnico anche della HHMR, sia per il viaggio che in gara; pneumatici antiforatura Marathon Plus della Schwalbe, più pesanti ma più sicuri; e un paio di Scarpe Scott in Gore-Tex con sistema di chiusura Boa; tutto questo oltre al classico ciclocomputer Garmin Edge 1030.

Un ringraziamento particolare vorrei farlo al mio casco Briko che in una brutta caduta in discesa si è pure rotto, salvandomi però la testa. A questo riguardo: in questi posti dove l’assistenza è precaria è molto importante avere una copertura assicurativa che copra un po’ tutto e con OutdoorNoProblem di Europassitance ho risolto ogni preoccupazione.

Per leggere I commenti dei partecipanti.

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