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Beppe Turbo, la mia vita da scalatore

Giuseppe Guerini, classe 1970, è l’uomo del Giro d’Italia con Montagna.tv. Il ciclista che ci ha fornito la sua esperienza e le sue competenze tecniche permettendoci di raccontarvi le tappe di montagna di questo centunesimo Giro d’Italia.

Quello di Giuseppe non è però un nome nuovo agli occhi dei tifosi. I più accaniti certamente lo ricorderanno alle costole di Pantani oppure in fuga dove le pendenze iniziano a farsi severe. Beppe Turbo, come lo chiamano i suoi fan è uno scalatore. Uno che si alza sui pedali e spinge in salita.

 

Da cosa nasce il soprannome Beppe turbo?

È un soprannome che nasce ai tempi della scuola.

I compagni avevano iniziato a chiamarmi “Giuseppe turbina” per identificarmi da un altro Giuseppe. Con gli anni poi “turbo” ha preso il posto di “turbina”, ma in fono si tratta di una casualità che non centra nulla con lo sport.

Sei uno scalatore, che significato ha nel ciclismo?

Significa sofferenza, principalmente (ride). Vuol dire fare tanta fatica e adorare la montagna. Significa avere un fisico più adatto alla montagna, alle salite.

Diciamo che per me non poteva essere diversa l’attitudine. Abito a Bergamo, in Val Seriana, e sono sempre stato circondato dalle montagne. La salita fa parte della mia indole. Non riuscirei a vivere in un posto senza cime, dove l’orizzonte spazia troppo lontano.

Anche quando usavo la bici, prima di dedicarmi all’agonismo, per andare in montagna, per andare a scalare, amavo ricercare le pendenze. Ricordo che salivo sempre, fino all’ultimo, anche quando le pendenze diventavano impegnative.

Quando hai iniziato a gareggiare?

Verso gli 11 anni, casualmente. È tutto nato dopo una sfida con un compagno di scuola che correva in bici. Quella sfida l’ho persa. Lui poi però ha smesso di pedalare mentre io ho continuato. Potrei quasi dire che sulla lunga distanza ho vinto io (ride).

In famiglia invece che clima c’era?

Mio papà era un appassionato e andava in bici, ma non mi ha mai spinto a questa passione. Non mi ha mai obbligato ad andare in bici. Non ha mai cercato né di trasmettermi la passione, né di ostacolarmi in questo percorso.

Andiamo sui ricordi… 17esima tappa del Giro 1998. Pantani in testa, tu subito dietro…

Quella era la tappa forse più importante di quel Giro. La ricordo molto impegnativa. Poi ricordo anche un Pantani che decide di attaccare a 50 chilometri dall’arrivo, sulla Marmolada.

Pantani partì, io gli stetti dietro e così andammo insieme per questi ultimi 50 chilometri. Ricordo l’arrivo, con molto vantaggio sulla Maglia Rosa che, a fine tappa, passò a Marco. Fu la sua prima Maglia Rosa della carriera.

Era la prima volta con Pantani?

No, ci incontravamo spesso in gara ma non ci frequentavamo nella vita. Avevamo la stessa età e capitava spesso di incontrarsi sulla bici. Capitava anche da dilettanti. La primissima volta in cui ci siamo “scontrati” credo sia stata una tappa del Giro dilettanti 1991.

In quell’anno io arrivai terzo, Pantani secondo e Casagrande fu il vincitore.

 Torniamo ai ricordi… 1999 Alpe d’Huez…

In quel periodo mi ero trasferito a Telekom e arrivavo da due terzi posti al Giro d’Italia quindi la speranza era di fare qualcosa di buono anche al Tour. In più mancava il capitano, quindi avevamo carta bianca per fare quel che volevamo.

Il giorno dell’Alpe d’Huez stavo bene, volevo provarci e l’ho fatto. Ho scelto di giocarmi la carta negli ultimi chilometri, ero convinto e alla fine ci sono riuscito nonostante lo scontro con il fotografo nell’ultimo chilometro.

Sono stato fortunato. La bici non ha subito danni e io nemmeno.

Cos’hai pensato in quel momento?

A nulla. Sono salito in bici e ho ricominciato a pedalare. L’arrivo era vicino e avevo un bel vantaggio, non avevo altro nella testa.

Perdere quella gara sarebbe stato un bel problema perché l’Alpe d’Huez è il simbolo dello scalatore di livello.

Il fotografo invece?

A fine tappa è venuto a scusarsi.

In fondo mi ha regalato quasi più popolarità quella caduta che non tutti gli anni da ciclista. Ancora oggi mi capita di essere riconosciuto per strada da qualcuno che mi dice “tu sei quello che è stato buttato giù dal fotografo” (ride).

C’è una domanda scomoda forse, ma che crediamo doverosa. Il ciclismo è uno degli sport in cui si è più parlato del doping, qual è la tua opinione a riguardo?

Quello del doping è certamente un problema reale che credo nessuno potrà mai mettere in dubbio. Si tratta di una realtà che negli anni passati ha messo in ginocchio il ciclismo. In positivo c’è però che il ciclista si è rimesso in gioco con una serie di test che nessun altro sportivo ha mai fatto. I protocolli a cui si sottomettono i ciclisti permettono di controllare il fisico 24 ore su 24, tutti i giorni. Si tratta di esami che abbiamo scelto di accettare per l’onestà di questo sport. Esami che portano benefici a tutti.

Grazie a questi test oggi l’antidoping è molto più vicino al doping, doparsi è sempre più difficile e per fortuna anche la mentalità degli atleti è cambiata. Abbiamo fatto dei grandi passi avanti e credo che a giovarne non sia solo il ciclismo, ma anche gli altri sport. Il doping è ovunque, ma lentamente lo stiamo sconfiggendo.

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