AlpinismoStoria dell'alpinismo

Storie di donne, storie di alpiniste

Henriette d’Angeville (sulla destra). Foto @ Storie di Sport

Henriette d’Angeville scalò il Monte Bianco il 3 settembre del 1838. Compì l’impresa in gonna e aiutata da un bastone, salvo poi essere derisa durante la discesa da una guida di Chamonix, che vedendola tornare le disse: «Avete avuto il grande merito di andare sul Monte Bianco, ma bisogna convenire che il Monte Bianco ne avrà molto meno ora che anche le signore possono scalarlo». Dovette aspettare decenni per vedere riconosciuta la sua impresa.

Alessandra Boarelli raggiunse la vetta del Monviso il 16 agosto del 1864, in compagnia della damigella 14enne Cecilia Fillia. I giornali dell’epoca salutarono l’impresa scrivendo con sprezzo: «Ora che è provato che perfin le donne raggiunsero quella punta culminante, che fino all’anno scorso si credette inaccessibile, chi sarà quel touriste che si perderà all’atto della prova?»

Storie comuni nel risicatissimo alpinismo femminile dell’epoca, che immerso in un mondo dominato dal sesso maschile, tentava di togliersi di dosso il ruolo imposto fino ad allora alle donne, che le voleva come sole mogli, figlie e madri degli alpinisti. Le donne volevano invece diventare anch’esse le protagoniste, ma per riuscirci avevano davanti una dura battaglia da combattere, fatta di pregiudizi, sbeffeggiamenti e presunta superiorità maschile.

Henriette Dangeville attraversa un crepaccio in un’illustrazione dell’epoca. Foto @ SkyAboveUs

Il primo passo nella costruzione di uno spazio femminile nell’alpinismo fu – a dire il vero – ad opera di Marie Paradis, cameriera in una locanda a Chamonix che senza alcuna esperienza alpinistica e senza essere abituata all’alta quota riuscì all’età di trent’anni a salire in vetta al Monte Bianco, realizzando la prima ascesa femminile il 14 luglio del 1808. Un’impresa particolare, buffa e forse fatta per gioco, ma dall’altissimo valore simbolico. In seguito infatti la stessa Marie – soprannominata poi Marie du Mont Blanc – commentava l’ascesa dicendo che era stata «trascinata, aiutata e spinta» fino alla vetta. In certi momenti chiese addirittura, a causa della stanchezza «di essere sbattuta in un crepaccio». Un’impresa non consapevole forse, ma che aprì la strada dell’alpinismo all’altra metà del mondo.

Alpinismo femminile che acquisì nel tempo un ruolo importante nell’emancipazione delle donne. Scalare significava infatti “farcela”, dimostrare che il fisico poteva permetterlo e soprattutto scalare significava spezzare la figura iconica dell’uomo forte, unico vero detentore del potere in quanto unico ad avere la prestanza fisica per affrontare asperità e difficoltà offerte dalla natura.

Prima di allora schemi, stereotipi e pregiudizi avevano per molti secoli contrapposto le donne ai monti. Le convinzioni dell’epoca erano basate sul fatto che mai e poi mai le donne avrebbero potuto avvicinarsi alle alte quote, per «ovvi motivi fisici e mentali». Nel XVIII secolo alcuni medici arrivarono addirittura ad ipotizzare che se una donna avesse provato a salire una montagna, lo sforzo sarebbe stato talmente grande che le avrebbe provocato sterilità.

La storia delle alpiniste con l’apostrofo – come è solito chiamarle Erri De Luca – si è invece arricchita nel tempo di figure illustri ed imprese straordinarie, che equivalendosi a quelle maschili, ne annullano l’artificiosa differenza di genere. Nel lasso di tempo che separa Marie du Mont Blanc da Elisabeth Revol, innumerevoli sono state infatti le prove messe in campo da quello che erroneamente viene chiamato il gentil sesso.

A partire da Lucy Walker, prima donna a raggiungere la vetta del Cervino lungo la cresta Hörnli nel 1871. Impresa che fu solo la più nota delle altre 98 scalate che Lucy compì nell’arco della sua vita. Sorella del celebre Horace, a cui si deve la prima conquista della Grandes Jorasses nel 1868, Lucy fu il primo vero esempio di donna alpinista.

Continuando con Annie Smith Peck, ardente suffragetta e scrittrice, nonché alpinista in grado di conquistare nel 1897 i messicani Pico de Orizaba e Popocatépetl e nel 1908 il peruviano Huascaràn, 6768 m.

Nel 1975 toccò invece a Junko Tabei scrivere una pagina nella storia dell’alpinismo femminile. Fu infatti la prima donna a scalare l’Everest, tre anni prima della leggendaria salita di Messner e Habeler.

A Wanda Rutkiewicz va invece il merito di essere arrivata laddove solo altri pochissimi alpinisti arrivarono, maschi o femmine che siano. La polacca esprimeva infatti tramite il suo stile e le sue imprese un livello altissimo. Fu la prima donna al mondo a raggiungere la cima del K2 senza ossigeno supplementare nel 1986. Ma proprio le montagne, che tanto le diedero, tanto anche le presero. Morì infatti sul Kangchenjunga, nel tentativo di scalare tutti i 14 ottomila.

Alison Jane Hargreaves. Foto @ The Times

Un passaggio significativo è stato invece compiuto in tempi più recenti da Alison Jane Hargreaves. L’alpinista britannica era infatti incinta del suo primo figlio – che diventerà poi il famoso alpinista Tom Ballard – quando scalò la parete nord dell’Eiger. Un gesto con cui volle sottolineare il pieno possesso del proprio corpo anche durante una gravidanza giunta ormai al sesto mese. A chi la criticò rispose che «ero incinta, non malata». Alison morì poi giovanissima a 33 anni nel 1995 durante la discesa dalla vetta del K2.

Gerlinde Kaltenbrunner sulla cima del Nuptse. Foto @ David Goettler

Nei nostri giorni la forza e la determinazione femminile si possono poi scorgere nelle imprese di Gerlinde Kaltenbrunner, che raggiungendo nell’agosto del 2011 la vetta del K2 senza ossigeno è divenuta la prima donna al mondo ad aver scalato tutti gli ottomila senza l’utilizzo di ossigeno supplementare.

Per poi finire con la caparbietà di Elisabeth Revolprima donna a compiere una prima invernale su un ottomila – strappando il primato ad una fortissima Tamara Lunger che si fermò a 100 metri dalla vetta del Nanga Parbat – sostenitrice di un alpinismo leggero in grado di ispirare imprese di una durezza indescrivibile, che fino ad un secolo fa nemmeno si potevano pensare per una donna di 50 chili. Senza però dimenticare la resilienza di Sìlvia Vidal, alpinista e climber spagnola di 45 chili capace di rimanere sulla parete ovest dell’Arrigetch Peaks, in Alaska, per 17 giorni. Un’impresa che l’ha portata in vetta, e che ha compiuto in solitaria dopo essersi portata 150 chili di materiale fino alla base della montagna, attraversando luoghi pieni di orsi e senza un riparo.

Silvia Vìdal. Foto @ Eldiario

Le donne citate e le imprese di cui si sono rese protagoniste, sono soltanto alcune di una lista innumerevole di alpiniste che hanno partecipato alla scrittura della storia alpinistica.

Imprese che mostrano come l’alpinismo sia divenuto negli anni una pratica sempre più femminile, dimostrata anche dal fatto che circa il 33 per cento degli iscritti al Cai sia di sesso femminile. Un esercito di 100mila donne pronto a rompere schemi precostruiti e portare nuova linfa vitale ad un mondo che per sua natura appartiene a tutti.

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6 Commenti

  1. Condivido assolutamente la circostanza che occorresse menzionare anche la Meroi (esclusa forse perché scalava col marito?)

  2. La Revol non è stata la prima donna a compiere un’invernale ad un 8000 (è stata la svizzera Marianne Chapuisat sul Cho Oyu), ma è stata la prima ad aprire una nuova via in invernale su un 8000. Tuttavia, tra le alpiniste citate, manca la più importante protagonista, l’unica che fece per prima quello che non era riuscito ancora fare ad un uomo (evento direi quasi unico nello sport). La salita in libera di Lynn Hill del Nose sull’El Capitan ripetendola poi in meno di 24 ore.

  3. Bello l’articolo. Però manca una figura fondamentale: la spagnola Edurne Pasaban, la prima donna al mondo a scalare tutti e 14 gli 8000….

  4. Sono state lasciate fuori “un monte” di grandi alpiniste , la Bernard , “la Formichina polacca” la stessa Lunger. Probabilmente è un articolo che volutamente resta sul generico dato che ora mai sono veramente molte le brave.

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