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“La meteorologia non è un numero da baraccone circense, ma serve a fare prevenzione” di Filippo Thiery

Testo di Filippo Thiery, fisico e meteorologo che si occupa di previsioni a supporto di attività operative in ambito istituzionale, esperto di meteorologia d’alta quota

 

L’approssimazione e la confusione con cui, nel nostro Paese, viene trattata l’informazione meteorologica, non è una novità. Fra termini utilizzati a sproposito (quando basterebbe consultare un glossario, se non chiedere la consulenza di un esperto, per chiamare le cose con il nome corretto) e neologismi coniati dalla parte più folcloristica del mondo mediatico (ad uso e consumo del titolo a effetto e della mania di sensazionalismo dilagante), questa branca della Fisica, invece di essere trattata con il rigore e la scrupolosità che una disciplina scientifica (peraltro nata in Italia!) meriterebbe, si trova regolarmente svilita al rango di fenomenologia da avanspettacolo, per non dire a numero da baraccone circense.

Se molte volte, dietro alla pubblicazione di espressioni tanto eclatanti quanto improprie, e spesso anche di informazioni previsionali totalmente prive di senso scientifico  – vedi gli scenari estesi a 10 o 15 giorni nel futuro – c’è la voluta ricerca di accattivarsi l’attenzione del lettori (e nell’era in cui tutto si misura in click e like, è una tendenza assai dura da combattere, per non dire una battaglia persa), capita anche che ciò avvenga, più in buona fede, per mera superficialità o insufficiente conoscenza della materia, cioè per meccanismi che si può sperare di scardinare con una adeguata diffusione della cultura meteorologica di base.

In questi ultimi casi, però, quando si prova a far presente l’inesattezza di un termine o la scarsa correttezza di come è stata riportata una notizia, ci si scontra spesso con un atteggiamento di generale sciatteria, riassumibile con la reazione “ma che differenza volete che faccia, l’importante è far capire cosa è successo, a chi volete che interessino le vostre pignolerie da scienziati”. Quel che molto difficile da far capire, purtroppo, è che non si tratta di puro vezzo per il rispetto della corretta nomenclatura (che pure avrebbe il suo perché, come in tutti i campi del sapere, provate voi a definire romanzo un poema, o a confondere una vetta dell’Himalaya con una della Patagonia), ma ha effetti concreti molto importanti, giacché riconoscere un fenomeno meteorologico vuol dire capire quale tipo di danni possa arrecare, con quale distribuzione spazio-temporale questi ultimi possano verificarsi, e non ultimo quale grado di predicibilità quel fenomeno abbia nei bollettini meteorologici, e tutto questo è cruciale per adottare i corretti comportamenti – sia in sede preventiva che in corso d’evento – per la tutela di noi stessi e delle persone di cui abbiamo la responsabilità. E se questo è vero in generale, figuriamoci in montagna, laddove l’esposizione alle avversità meteorologiche è per forza di cose maggiore e spesso fonte di rischio.

Un classico esempio, che abbiamo visto anche di recente, è quello per cui qualsiasi evento di venti particolarmente intensi, con raffiche capaci di arrecare gravi danni, venga automaticamente catalogato sui social e sui media come una tromba d’aria, cosa che non è necessariamente detto sia (anzi, nella maggior parte dei casi si tratta di altro, l’atmosfera ha al suo arco un sacco di fenomeni, non uno solo da riciclare per tutte le occasioni). Si tratta di una confusione affatto banale, dato che una tromba d’aria (fenomeno vorticoso associato a nubi temporalesche, e riconoscibile dalla classica nube a imbuto che scende dalla base di queste ultime verso il suolo), è un fenomeno che sia come tempo di vita, che come distanza percorsa, che come tipo di danni, che come predicibilità deterministica dell’evento e quindi come possibilità di preannuncio in termini di minuti o di ore, è assolutamente differente sia dalle violente raffiche che spirano in senso lineare (ovvero non vorticose, ma non necessariamente meno intense) al passaggio di un temporale e al rovesciamento di aria verso il suolo che esso comporta, che a maggior ragione dai forti venti associati (non necessariamente in condizioni di tempo perturbato) ad una configurazione di pressione al suolo graficamente rappresentata da isobare molto fitte, ad esempio lungo la zona di confine fra un campo di alta pressione e un’area a pressione inferiore, come tipicamente capita fra i due versanti della barriera alpina, con conseguente attivazione di venti impetuosi che spirano da un lato all’altro della medesima, incuneandosi fra i valichi e scendendo rabbiosamente a sferzare i pendii e le valli, talvolta sconfinando fino in pianura.

Questa confusione, peraltro, rasenta davvero la comicità, qualora si legga di una “tromba d’aria” capace di colpire un impianto di risalita nel cuore delle Alpi, peraltro in assenza di nubi temporalesche e in uno scenario totalmente innevato… visto che questo fenomeno, tipicamente, si innesca in condizioni diametralmente opposte, cioè in zone di pianura, in conclamata presenza di fenomeni temporaleschi e con temperatura al suolo sufficientemente alta da avere un elevato contrasto rispetto a quella degli strati superiori dell’atmosfera (più altri ingredienti che vi risparmio), com’è abbastanza usuale che avvenga in estate nel catino della Pianura Padana. Un po’ come fare un titolo che parla di avvistamenti di squali e balene in mezzo alle Dolomiti, insomma.

Al di là del lato ridicolo della vicenda, riuscire a confondere situazioni di venti forti a larga scala, di ragguardevole durata e ben individuati in sede di previsione fin dal giorno precedente, con una fantomatica tromba d’aria (fenomeno alla scala estremamente locale, di durata ristretta e il cui verificarsi non è individuabile con certezza ed elementi di dettaglio se non nel momento stesso in cui lo si osserva) è una questione che va ben oltre la mera nomenclatura, e coinvolge problematiche di pura sostanza nella comprensione del fenomeno e soprattutto dei provvedimenti di contrasto ai danni che ne possono derivare. Alimentare continuamente questo tipo di confusioni è quindi qualcosa di tremendamente fuorviante, per esempio nella valutazione delle misure preventive che si potevano prendere (e che, a futura memoria, si devono e possono prendere) per evitare inutilmente l’esposizione di centinaia di persone (compresi i soccorritori) al pericolo, nel momento in cui le raffiche in questione si abbattono su una situazione molto frequentata, come la seggiovia di un comprensorio sciistico.

Potremmo andare avanti all’infinito con analoghi esempi, a partire dalla inflazionata abitudine di coniare neologismi di rara stupidità, come la famigerate “bombe d’acqua” (in realtà si chiamano nubifragi), che finiscono per creare confusione fra il fenomeno meteorologico e il suo impatto, fra il pericolo e il rischio, fra quello che cade dal cielo e la risposta del suolo, creando anche pericolosi alibi per la malagestione di quest’ultimo (le bombe non sono certamente quelle che cadono dalle nubi, casomai sono quelle di cui abbiamo disseminato il nostro territorio con decenni di urbanizzazione non attenta alle problematiche idrogeologiche e idrauliche). Quel che sembra solo un puntiglio terminologico, nasconde quindi questioni ben più concrete.

Se tutte le chiacchiere spese sui media e sui social a blaterare di “prevenzione” dopo ogni tragedia fossero tramutate nell’impegno ad affrontare più seriamente gli eventi avversi (a partire dal fatto di raccontarli correttamente ai propri lettori e telespettatori, magari anche educandoli a riconoscerne le caratteristiche, per esempio spiegando, nel caso della seggiovia in provincia di Cuneo, che erano raffiche sì violente e di improvvisa attivazione, ma abbondantemente annunciate dai bollettini di previsione del giorno prima, ci fosse un solo giornale che lo ha scritto!), magari qualche passo avanti nella cultura del rischio lo faremmo.

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4 Commenti

  1. Complimenti per l’articolo di rara accuratezza scientifica.
    Più articoli del genere e meno clickbait.

  2. Molte trasmissioni e siti web , puntano sulle previsioni , a medio , breve e lungo termine.Nessuna sottopone le previsioni gia’ fatte ad un controllo di verifica delle loro effettiva realizzazione o scostamento…tanto per dire…noi avevamo previsto giusto, ci siamo sbagliati.ecc.Eppure il metodo scientifico contempla pure questa fase…occorre una mentalita’ da ragioniere.

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